Nel Cantico dei Cantici, il tema dell‘amore si dispiega attraverso un raffinato percorso sensoriale. Il versetto 1,3 segna un passaggio cruciale: dal gusto del bacio all‘aroma del profumo, fino al nome dell‘amato che si fa essenza. Quest‘intreccio poetico racchiude un‘esperienza dell‘amore che trascende la dimensione fisica.
3a. Per fragranza i tuoi profumi [sono] soavi, | לְרֵ֙יחַ֙ שְׁמָנֶ֣יךָ טוֹבִ֔ים |
lᵉrêaḥ šᵉmāneḵā ṭôḇı̂m | |
b. olio versato (che si effonde) è il tuo nome | שֶׁ֖מֶן תּוּרַ֣ק שְׁמֶ֑ךָ |
šemen tûraq šᵉmeḵā | |
c. per questo le fanciulle si innamorano di te. | עַל־כֵּ֖ן עֲלָמ֥וֹת אֲהֵבֽוּךָ׃ |
ʿal-kēn ʿᵃlāmôṯ ʾᵃhēḇûḵā |
Nel Cantico dei Cantici, la parola ebraica ṭôḇı̂m ricorre come elemento chiave nei versetti 1,2 e 1,3, creando una connessione che purtroppo si perde nella traduzione italiana1. Mentre l‘ebraico può esprimere tutti i gradi di paragone (buono, migliore, ottimo) con un‘unica parola, l‘italiano necessita di tre termini distinti: buono, migliore e ottimo. Così, quando in 1,2b leggiamo «[sono] dolci le tue carezze [più] del vino» e in 1,3a «Per fragranza i tuoi profumi [sono] soavi», in ebraico troviamo lo stesso vocabolo ṭôḇı̂m.
In 1,3a gli accenti ebraici ci forniscono preziose indicazioni preziose per la lettura, perché staccano il primo termine dagli altri due2. Fox offre un’interpretazione convincente: «Per quanto riguarda il profumo, i tuoi oli sono buoni»3. In questo caso il termine lᵉrêaḥ si configura come un casus pendens e significa “rispetto a“ o “riguardo a“4. Per eleganza espressiva, possiamo tradurlo come «Per fragranza i tuoi profumi sono soavi».
Il verbo tûraq, «versare», presente nel verso 1,3b, ha generato numerose discussioni tra gli studiosi. L‘interpretazione più solida lo identifica come un imperfetto hophal del verbo rîq. Se l’hiphil significa “svuotare” o “versare”, l’hophal ne rappresenta la forma passiva. Nell‘AT si trova un solo altro esempio di questa forma in Ger 48,11, dove si descrive il vino versato di botte in botte, metafora dell‘esilio di Moab5. Non è una coincidenza che questo passo menzioni anche il sostantivo rêaḥ, la stessa “fragranza“ degli oli del Cantico. L‘intensità dell‘aroma di oli e vini aumenta proprio durante il versamento.
La forma verbale tûraq presenta un‘interessante questione grammaticale: come terza persona femminile singolare, ha il sostantivo šemen come soggetto («olio versato»). È notevole che, normalmente maschile nell’AT, qui appaia al femminile – una peculiarità notata da dizionari e commentari6. Esiste anche un‘altra possibilità morfologica: il verbo potrebbe essere una seconda persona maschile singolare, trasformando il versetto in un‘allocuzione diretta all’amato: «”Come olio sei versato”, è il tuo nome».
Il terzo rigo poetico (1,3c) ci aiuta a comprendere meglio il complesso intreccio di relazioni tra l’amato (Salomone?), Raʿyāṯî (l’amata) e le altre donne del Cantico. L‘espressione ebraica ʿal-kēn, composta dalla preposizione ʿal e dall‘avverbio kēn, significa “per questo motivo, dunque” e ci rivela che sono il “profumo” e il “nome” di Salomone a suscitare l’amore delle vergini. Tuttavia, è importante notare che queste “fanciulle“ non godono degli stessi privilegi di Raʿyāṯî. Non ricevono i “baci“ che lei desidera ardentemente al v. 2 né l’amato le conduce in luoghi appartati come fa con la sua amata al v. 4. Sono, per così dire, spettatrici di questa storia d‘amore.
Il sostantivo plurale ʿᵃlāmôṯ può significare sia «giovani donne», sia «donne vergini». Vengono menzionate solo in due occasioni nel Cantico: al v. 3 e in 6,8. È probabile che si tratti delle stesse figure, forse parte di quel gruppo più ampio chiamato «figlie di Gerusalemme» (bᵉnôṯ yᵉrûšālāim) che incontriamo per la prima volta in 1,5 e che riappare lungo tutto il testo. Nonostante il loro amore (ʾahāḇ) per l’amato, il loro status di “vergini” (ʿᵃlāmôṯ) indica chiaramente l‘assenza di un legame intimo. Il versetto 6,8 chiarisce ulteriormente la gerarchia: le innumerevoli vergini aspirano all‘amore dell’amato, ma si distinguono nettamente dalle sessanta regine e dalle ottanta concubine unite a lui in matrimonio, e soprattutto dall’«unica» amata che ha conquistato il suo cuore indiviso (Ct 6,9).
Queste giovani potrebbero sperare di essere sposate con Salomone, ma sono consapevoli che il suo amore per Raʿyāṯî rende tale prospettiva impossibile. Ciò che colpisce è la loro nobiltà d‘animo: non manifestano né invidia né gelosia. Anzi, sia le figlie di Gerusalemme (come in 5,9 e 6,1) che un coro anonimo (in passi come 1,4d-f e 7,1) esprimono una gioia sincera per l‘unione tra l’amato e l’amata. Un sentimento che possiamo attribuire proprio a queste giovani donne.
L’olio
Quando, nel Ct 1,3b, l‘amata esclama: «“Olio/profumo versato“ è il tuo nome», ci introduce in un ricco universo simbolico che attraversa tutta la Scrittura. Il termine ebraico šemen, “olio“, evoca infatti momenti sacri di consacrazione che segnano l‘intera storia della salvezza.
Già nell‘Esodo troviamo il primo riferimento alla preparazione dell‘olio sacro: «[Bezalel] compose l‘olio dell‘unzione sacra e l‘incenso aromatico, puro, opera di profumiere» (Es 37,29). Questo olio, mescolato con sapiente arte da Bezalel, artigiano scelto da Dio, era destinato a consacrare la tenda dell‘incontro e l‘arca dell‘alleanza (Es 25-37, spec. 30,22-35), rendendoli luoghi privilegiati della presenza divina. Lo stesso olio profumato fu poi utilizzato per consacrare Aronne e i suoi figli al sacerdozio (Lv 8,1-13).
Con l‘avvento della monarchia, l‘olio diventa segno della regalità sacra d‘Israele. Un episodio emblematico è l‘unzione di Saul da parte di Samuele: «Samuele prese allora l‘ampolla dell‘olio e gliela versò sulla testa, poi lo baciò dicendo: “Non ti ha forse unto il Signore come capo sulla sua eredità?“» (1Sam 10,1). In questo gesto, unzione e bacio si intrecciano, proprio come nell‘incipit del Cantico, a significare un‘intimità speciale con il Signore. Attraverso le mani e le labbra di Samuele, è Dio stesso che consacra il suo eletto.
Questa connessione tra bacio, unzione e amore si ritrova con particolare intensità nel Nuovo Testamento, in particolare nella famosa scena che Luca descrive nella casa di Simone il fariseo. Il racconto è di una drammaticità intensa: «Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,36-38).
Il seguito del racconto rivela tutta la sua profondità: «Vedendo questo, il fariseo che l‘aveva invitato disse tra sé: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!“. Gesù allora gli disse: “Simone, ho da dirti qualcosa“» (Lc 7,39-40). Attraverso la parabola dei due debitori e il confronto tra l‘accoglienza fredda di Simone e i gesti d‘amore della donna, Gesù svela il cuore del messaggio: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47).
In questo episodio ritroviamo, in forma amplificata, la stessa concatenazione bacio-unzione-unione presente all‘inizio del Cantico. Si passa dal desiderio di baciare l‘amato all‘elogio di quest‘ultimo in termini di unguento prezioso. Ma c‘è di più: le parole di Gesù confermano che questi gesti d‘amore – il bacio dato al Signore, l‘unguento versato su di lui – non sono solo degni di lode, ma diventano via di perdono e di salvezza. È l‘amore, espresso in questi gesti, l‘unica cosa che conta davvero.
Profumo versato è il tuo nome
l terzo versetto è interessante anche perché offre un significativo cambio di prospettiva sensoriale: se prima dominava il gusto, ora è l‘olfatto a farsi protagonista. L‘amato, pur essendo fisicamente assente, lascia tracce profonde grazie al senso che più di tutti custodisce i ricordi. Il suo profumo, più inebriante del vino, rimane nel corpo dell‘amata come memoria viva di una presenza tenera e deliziosa.
La parola ebraica rêaḥ ci parla di questa comunione spirituale attraverso il profumo. È affascinante come, nell‘assenza fisica, ciò che resta più vivido sia proprio questa fragranza eterea, accompagnata dal nome dell‘amato, scolpito nel cuore come un‘incisione su pietra. Questo ci riporta al proverbio di Qoelet: Ṭôḇ šēm miššemen ṭôḇ, «Un buon nome è preferibile all’unguento profumato» (Qo 7,1).
Il testo ci guida attraverso una raffinata progressione: dalla molteplicità dei profumi si giunge al profumo per eccellenza, che è il nome stesso dell‘amato. Un nome che, nella sua unicità, supera e racchiude ogni altra fragranza. Non è un caso che in ebraico “nome“ (šēm) e “profumo“ (šemen) siano così simili: è un gioco di parole che racchiude una profonda verità. Come in Qo 7,1, dove si contrappongono l‘autenticità di un nome e la fugacità della fama, qui il nome trascende tutti gli altri profumi, diventando l‘essenza stessa del ricordo.
Ma quale nome si cela dietro questa potente metafora del profumo? Chi è colui il cui nome stesso è fragranza che supera ogni altra aroma? Le tradizioni ebraica e cristiana ci offrono due interpretazioni profonde e complementari di questo mistero.
Secondo la tradizione ebraica, questo nome prezioso è il tetragramma sacro, YHWH, rivelato a Mosè, circondato dai suoi “tredici attributi“ (cf. Es 34,6-7), che vengono meditati durante lo Yom Kippur. Nella tradizione cristiana, questo nome è “Gesù“ – in ebraico Yešuʿah (“salvare“), in greco Iesoûs, connesso con il verbo iâsthai (“guarire“). Come proclama Luca negli Atti degli Apostoli: «in nessun altro c‘è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12).
Per i maestri della spiritualità orientale, come Giovanni Climaco, Esichio di Batos e Filoteo il Sinaita, invocare questo nome significa molto più che pronunciare una parola: implica intrecciare il proprio respiro vitale con esso, accordare il ritmo del proprio respiro all‘invocazione stessa. Come profumi che si diffondono nella memoria dei fedeli, attorno a questo nome si raccolgono tutti i suoi titoli: Cristo, Figlio di Dio, Signore, Salvatore, Redentore, Sapienza, Agnello di Dio, Stella del mattino, sommo Sacerdote secondo l‘ordine di Melchisedech, Avvocato, unico Mediatore, Profeta escatologico, Verbo di Dio, Figlio dell‘uomo.
È nell‘unione intima tra il respiro e il nome che si realizza una comunione continua con l‘Amato che trascende ogni titolo e definizione.
- Tra i vv. 2 e 3 c’è una costruzione chiastica rispetto al termine ṭôḇı̂m: dolci le tue carezze [più] del vino // Per fragranza i tuoi profumi [sono] soavi. ↩
- Lo zarqā su לְרֵ֙יחַ֙ separa il termine dalle parole successive; il mûnāḥ lega strettamente il termine שְׁמָנֶ֣יךָ alla parola che segue, טוֹבִ֔ים; lo zāqēf marca la conclusione della frase. ↩
- M.V. FOX, The Song of Songs and the ancient Egyptian love songs, University of Wisconsin, London 1985, 96-98. ↩
- Cf. GKC, § 143e; Joüon, § 133d; Waltke-O’Connor, § 11.2.10d. Sul casus pendens vedi anche A. NICCACCI – G. GEIGER, Sintassi del verbo ebraico nella prosa biblica classica. Seconda edizione riveduta e ampliata a cura di Gregor Geiger (SBF Analecta 88), Edizioni Terra Santa, Milano 2020, § 123-125. ↩
- Ecco il testo di Gremia: «Moab era tranquillo fin dalla giovinezza, riposava come vino sulla sua feccia, non è stato travasato (rîq) di botte in botte, né è mai andato in esilio; per questo gli è rimasto il suo sapore, il suo profumo (rêaḥ) non si è alterato». ↩
- Cf. BDB e F. DELITZSCH, Commentary on the Song of Songs and Ecclesiastes. Translated by M. G. Easton, Eerdmans, Grand Rapids 1978, 21. ↩