Dopo l’appassionata ricerca della donna innamorata, espressa nel versetto precedente, il Cantico ci presenta una risposta che intreccia delicatamente ironia e tenerezza: «Se non lo sai per te, o bella fra le donne…». Il dialogo si apre qui a un affascinante gioco di voci.
a. Se non lo sai per te, bella fra le donne, ʾim-lōʾ ṯēḏʿı̂ lāḵ hayyāp̱â bannāšı̂m |
אִם־לֹ֤א תֵדְעִי֙ לָ֔ךְ הַיָּפָ֖ה בַּנָּשִׁ֑ים |
b. esci per te sulle orme del gregge ṣᵉʾı̂-lāḵ bᵉʿiqḇê haṣṣōʾn |
צְֽאִי־לָ֞ךְ בְּעִקְבֵ֣י הַצֹּ֗אן |
c. pascola le tue caprette rᵉʿı̂ ʾeṯ-gᵉḏı̂yyōṯayiḵ |
וּרְעִי֙ אֶת־גְּדִיֹּתַ֔יִךְ |
d. presso le tende dei pastori. ʿal miškᵉnôṯ hārōʿı̂m: |
עַ֖ל מִשְׁכְּנ֥וֹת הָרֹעִֽים׃ ס |
Chi pronuncia queste parole? La prima ipotesi, forse la più naturale, è che sia proprio Salomone a rispondere. D’altronde, la domanda era rivolta direttamente a lui («Amore dell’anima mia»; Ct 1,7a) e il dialogo prosegue nei versetti successivi (1,9-11) con parole che sono indubbiamente sue. Il tono di lieve rimprovero acquisterebbe così il sapore intimo di una conversazione tra amanti. Perché allora non rivelare direttamente dove si trova?
Eppure, il Cantico gioca con le voci, le moltiplica e le intreccia, lasciando aperta la possibilità che a parlare sia una voce corale, una risposta che si leva dalla terra e dall’aria, forse dalle figlie di Gerusalemme, forse dai pastori erranti, forse dalla saggezza stessa che abita il tempo. Questa voce accoglie la sete della donna, ma non la placa del tutto; la illumina senza svelare ogni cosa. È un’indicazione che contiene una sfida, un cammino che non si offre in maniera immediata, ma che va percorso con pazienza. La donna è chiamata a muoversi, a cercare, a leggere i segni lungo il sentiero dell’amore.
«Bella fra le donne» (hayyafah bannashim; v.8a), sussurrano le labbra della notte, e l’eco si allarga come un’onda sulla superficie del tempo. È un titolo che si ripete, un sigillo impresso sul cuore dell’amata. Così la chiamano in Ct 5,9 e 6,1, e la sua bellezza risuona nel Cantico, riflesso di una grazia che non è solo carne, ma luce dell’essere. Il suono di queste parole si fa preghiera, un richiamo lontano che attraversa i secoli fino a posarsi sulle labbra di Elisabetta in Lc 1,42: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» La bellezza che il Cantico celebra è la stessa che Dio riconosce, il riflesso di una presenza che illumina e chiama.
«Esci per te (ṣᵉʾı̂-lāḵ) sulle orme del gregge» (v. 8b). Uscire. Lasciare ciò che si conosce, varcare la soglia, spingersi oltre la sicurezza delle abitudini. Il verbo «uscire» (yāṣāʾ) risuona come un antico comando, lo stesso che risuonò nella notte d’Egitto (Es 12,41), lo stesso che spinse Abramo a partire verso l’ignoto (Gen 12,1). Nel comando dato ad Abramo, l’espressione leḵ-lᵉḵā («Vattene!») risuona con un duplice significato: «Va’ per te», ma anche «va’ verso te stesso». Non si tratta solo di un movimento esteriore, ma di un cammino interiore, un invito a lasciarsi trasformare nel percorso, ad abbandonare certezze e sicurezze per scoprire la propria vera identità. La donna è invitata a mettersi in cammino, a seguire le orme del gregge, a lasciarsi guidare non da una certezza, ma dalla fiducia. L’amore non è un luogo da raggiungere, ma un viaggio da vivere, una strada che si svela passo dopo passo, come un sentiero tracciato nella polvere dai passi di chi ci ha preceduti.
«Pascola le tue caprette» (v. 8c). Le caprette (gᵉḏı̂yyōṯ) saltano leggere tra i sassi, seguono il sentiero con un istinto che precede la ragione. Animali fecondi, simboli di vita e desiderio, compagne della dea dell’amore nei miti antichi. Qui, nel Cantico, esse danzano tra i versi come custodi di un mistero. La donna è chiamata a seguirle, a lasciarsi condurre dal ritmo della vita, dalla voce dell’amore che la sospinge. L’immagine pastorale si intreccia con le pagine delle Scritture: il gregge che Dio guida (Sal 23,1), il popolo disperso che Egli raduna (Ez 34,11-16). Ma qui non è un popolo a essere raccolto: è un cuore, un’anima che si affida.
Le dimore dei pastori si stagliano all’orizzonte, ombre leggere sotto il cielo in attesa della sera. Sono il luogo dell’incontro possibile, ma anche della mediazione. L’amato non è lì ad attendere: la strada passa attraverso altri volti, altre mani, altre parole. L’amore non si conquista con la forza né si brucia nell’impazienza: si attende, si prepara, si lascia maturare come un frutto al sole. Il Cantico insegna la pazienza dell’amore, la bellezza dell’attesa e il valore della distanza che accresce il desiderio e lo rende autentico.
Il versetto 1,8 chiude un piccolo itinerario all’interno del grande viaggio del Cantico. Il cuore che cerca trova non una fine, ma una nuova soglia. La bellezza della donna non è solo un dono, ma una vocazione. L’uscita non è solo un movimento, ma una rivelazione. Le caprette e le dimore dei pastori non sono solo scenari, ma simboli di una verità che scava nell’essenza delle cose: l’amore è un cammino che si compie nell’umiltà, nella cura e nella capacità di lasciarsi condurre. Non si tratta di conquistare l’attimo, ma di respirare l’eternità che si fa attesa, pellegrinaggio, promessa.