Un sacchetto di mirra tra i seni: il versetto 1,13 del Cantico dei Cantici ci consegna un’immagine di straordinaria intensità poetica, dove l’intimità degli amanti si intreccia con la sacralità del profumo.
Un sacchetto di mirra [è] il mio diletto per me, | צְרוֹר הַמֹּר דּוֹדִי לִי |
ṣᵉrôr hammōr dôḏı̂ lı̂ | |
fra i miei seni passerà la notte. | בֵּין שָׁדַי יָלִין׃ |
bên šāḏay yālı̂n: |
La custodia dell’amore
Il termine ebraico ṣᵉrôr, che la traduzione tradizionale ha reso come “sacchetto”, rivela nelle Scritture una ricchezza semantica sorprendente: lo ritroviamo come contenitore del denaro che i fratelli di Giuseppe riportano dall’Egitto (Gen 42,35), come borsa in cui il giovane amante ripone le monete per il suo viaggio (Pr 7,20), ma soprattutto – in un’immagine di straordinaria potenza – come il “sacchetto della vita” (ṣᵉrôr haḥayyîm) in cui Dio stesso custodisce l’anima di Davide:
«Se qualcuno insorgerà a perseguitarti e ad attentare alla tua vita, la vita del mio signore sarà conservata nello scrigno dei viventi (ṣᵉrôr haḥayyîm) presso il Signore» (1 Sam 25,29).
Questa risonanza biblica conferisce al nostro versetto una profondità inattesa: il piccolo involucro contenente la mirra non è un semplice accessorio ornamentale, ma diventa simbolo di quella custodia amorosa in cui la vita stessa trova protezione e senso.
La mirra: geografia di un profumo biblico
La mirra (mōr in ebraico, σμύρνα in greco) disegna nel Cantico una geografia di profumi che dall’Arabia meridionale – sua terra d’origine – si estende fino alle terre d’Israele attraverso antiche rotte commerciali (già attestate in Gen 37,25 e 43,11, dove compare il termine affine lōṭ). Questa resina aromatica, dal profumo intenso e vagamente amarognolo (la radice mrr significa proprio “essere amaro”), si intreccia come un filo profumato attraverso l’intero poema, comparendo in momenti chiave: la contemplazione dell’amato (4,14), il banchetto nuziale (5,1), l’unzione degli amanti (5,5), fino alla fragranza che emana dalle labbra dello sposo (5,13).
Nel nostro versetto, racchiusa nel suo sacchetto come un tesoro prezioso, la mirra diventa emblema di una presenza che pervade e trasforma. La sua ricchezza simbolica si dispiega in un ventaglio di usi che attraversa l’intera Scrittura: la ritroviamo come componente principale dell’olio santo per l’unzione dei sacerdoti e degli arredi del tabernacolo (Es 30,23-30), dove la sua fragranza segna il confine tra il sacro e il profano. Nel libro dei Proverbi (Pr 7,17) profuma il letto degli amanti – anche se in un contesto che parla di seduzione adultera – mentre nel libro di Ester (Est 2,12) fa parte di quei rituali di purificazione che preparano la sposa all’incontro con il re. Quest’uso cosmetico e rituale della mirra trova eco nella tradizione ellenistica, dove il termine σμύρνα (da cui deriva il nostro “mirra”) designa lo stesso prezioso aroma che i Magi porteranno in dono al Bambino di Betlemme (Mt 2,11), quasi a tessere un filo invisibile tra l’amore umano cantato nel poema e il mistero dell’Incarnazione.
È nell’uso funerario della mirra che il nostro versetto svela forse la sua dimensione più profonda e misteriosa. Questa resina preziosa, che nel Cantico profuma l’intimità degli amanti, riappare nelle pagine del Nuovo Testamento in un crescendo drammatico che dal dono dei Magi conduce fino al sepolcro vuoto: è presente nel vino mescolato a mirra (ἐσμυρνισμένον) offerto e rifiutato sulla croce (Mc 15,23), si mescola agli aromi con cui Nicodemo prepara il corpo del Signore per la sepoltura (Gv 19,39), per poi dissolversi nell’aria davanti alle donne che, venute per completare l’unzione del corpo con spezie e oli profumanti (μύρα: Lc 23,56), troveranno invece il sepolcro vuoto. In questa luce, il sacchetto di mirra che riposa sul cuore dell’amata si rivela come qualcosa di più di un semplice ornamento profumato: diventa sigillo di un amore che sfida la morte, memoria di una presenza che persiste nell’assenza, prefigurazione di quel profumo di vita che emanerà dal sepolcro vuoto.
Il mio diletto
Il termine dôḏı̂, «il mio diletto», che qui risuona per la prima volta, percorrerà l’intero poema come un filo musicale ininterrotto, ripetendosi ben trentatré volte in un crescendo di intimità e passione. L’innamorata, che abbiamo deciso di chiamare Raʿyāṯî, lo usa come appellativo privilegiato per il suo amato, ripetendolo ventisei volte con il possessivo di prima persona singolare (dôḏı̂, “il mio diletto”). Il tessuto sonoro di questa parola nasconde un gioco di consonanti denso di significato: le lettere che compongono dôḏı̂ (dwdj) sono le stesse che formano il nome di Davide (dwjd). Anzi – particolare non trascurabile – nei libri dei Salmi, di Samuele e dei Re (con l’eccezione di 1Re 3,14 e 11,4) il nome di Davide è scritto senza la j (dwd), proprio come dwd, “amato”. Questa corrispondenza fonetica si carica di ulteriore significato se pensiamo al soprannome yᵉḏı̂ḏᵉyah (“amato da YHWH”) che il profeta Natan attribuisce a Salomone (2Sam 12,25).
Il vocabolo lo si ritrova come una melodia ricorrente in passi chiave del poema: nell’ardente ricerca notturna dell’amato (3,1-4; 5,4-8), nei momenti di contemplazione della bellezza (5,9-16), fino al culmine della reciproca appartenenza (6,3; 7,11). Solo una volta, in 5,1, il termine appare al plurale in riferimento agli “amici” (o forse alle “carezze”, come in 1,2.4). Questa ricchezza semantica si riflette anche nella traduzione greca dei Settanta, che lo rende con ἀδελφιδός, termine che nel greco classico indicava il “nipote” e che nella Bibbia greca assume la sfumatura più ampia di “amato”, conservando quella dimensione di intimità familiare così caratteristica dei canti d’amore egiziani, dove gli amanti si chiamano reciprocamente “fratello” e “sorella”. La stessa radice verbale w/ydd, che significa “amare”, genera il termine dôḏı̂m (“carezze”), creando una costellazione semantica che dalla tenerezza dell’affetto familiare si estende fino all’ardore della passione amorosa.
Scene di intimità
L’intimità della scena raggiunge il suo culmine nel gioco sottile tra il verbo yālı̂n (“pernotta”, “dimora”) e il termine šāḏay (“seni”) – parola che nel testo ebraico rivela una ricchezza di significati che va ben oltre la sua carnalità immediata. Come una partitura musicale che intreccia diversi temi, šāḏay risuona attraverso tutto il Cantico in una progressione di senso che dalla sensualità più esplicita (4,5; 7,4.8.9) si eleva fino a toccare le corde più profonde del mistero nuziale. È significativo come questo termine compaia sempre al duale (šāḏayim) quando si riferisce al femminile, quasi a suggerire una completezza, una pienezza che si fa simbolo. Nel nostro poema, i seni di Raʿyāṯî diventano metafora di una femminilità che si rivela gradualmente: sono le “torri” inviolate di un muro di cinta che parla di verginità preservata (8,10), sono il luogo dell’intimità più profonda con l’amato, ma sono anche – in un’immagine di straordinaria tenerezza – il ricordo del nutrimento materno, quando la sposa sogna il suo amato come fratello «che ha succhiato il seno di mia madre» (8,1).
In questo intreccio di significati, l’ambiguità del verbo yālı̂n – chi è che “pernotta” tra i seni? il sacchetto di mirra o l’amato stesso? – si rivela non come un’imprecisione poetica ma come una raffinata strategia letteraria che permette al testo di oscillare continuamente tra la concretezza dell’esperienza amorosa e la sua trasfigurazione simbolica.
La tradizione patristica, sempre attenta a cogliere le risonanze spirituali del testo, ha visto in questi seni i due Testamenti che nutrono la Chiesa, o i due comandamenti dell’amore – verso Dio e verso il prossimo – che sostengono la vita del credente. Una lettura che, se pure può apparire forzata alla sensibilità contemporanea, coglie quella dimensione nutritiva e vivificante dell’amore che il testo suggerisce con straordinaria delicatezza.
Ma è proprio nella sua concretezza che il testo rivela la sua profondità più autentica: l’amore umano, con la sua inseparabile unità di corpo e spirito, diventa luogo di una presenza che profuma di eternità. Come il sacchetto di mirra trasforma il suo contenuto prezioso in fragranza che pervade l’aria, così l’esperienza amorosa trasfigura la realtà quotidiana in spazio di rivelazione, dove il divino si lascia incontrare nella tenerezza di un abbraccio profumato di eternità. In questa luce, anche le interpretazioni più spirituali non appaiono come una fuga dalla corporeità del testo, ma come un tentativo di cogliere quella dimensione trascendente che l’esperienza amorosa umana naturalmente evoca e verso cui misteriosamente tende.