Il Cantico dei Cantici prosegue la sua esplorazione dell’amore: dopo i baci ardentemente desiderati nella prima parte del versetto 1,2 (cfr. il post precedente per la prima parte), ora ci introduce alle carezze dell’amato, descritte come più dolci e inebrianti del vino stesso.
b. perché [sono] deliziose le tue carezze [più] del vino | כִּֽי־טוֹבִ֥ים דֹּדֶ֖יךָ מִיָּֽיִן׃ |
kı̂-ṭôḇı̂m dōḏeḵā mı̂yyāyin: |
La Settanta e la Vulgata1 si discostano dal testo ebraico traducendo: «poiché più buoni del vino sono i tuoi seni (ὅτι ἀγαθοὶ μαστοί σου ὑπὲρ οἶνον)». Queste versioni interpretano l’ebraico dôdîm come mastoi, “seni”. Nella mia traduzione seguo il testo ebraico, pur tenendo presente la versione della Settanta per la sua antichità.
La Bibbia CEI traduce: «Sì, migliore del vino è il tuo amore», dando alla particella kî un valore assertivo ed enfatico2. Ho scelto invece di mantenere il valore causale “perché/poiché”. Chi parla, infatti, dopo aver espresso il suo desiderio, ne spiega il motivo passando dalla terza persona alla seconda: «Che egli mi baci perché tu, i tuoi amori, le tue tenerezze, i tuoi seni (secondo LXX e Vulgata) sono migliori del vino». A questo punto, sorge spontanea una domanda: sta parlando di un’altra persona? Lasciamo per ora in sospeso questa questione.
Raʿyāṯî paragona l’amore al vino (yayin). Non è una scelta casuale: il vino, con la sua dolcezza e la sua capacità di inebriare, è da sempre simbolo dell’amore in tutto il Vicino Oriente antico. L’immagine della vigna, che nel Cantico rappresenta il corpo femminile (vedi Ct 1,6), si intreccia perfettamente con quella del vino. In questo primo verso, baci, amore e vino si mescolano per dare vita a una poesia intensa e appassionata.
La parola ebraica dôdîm, che traduciamo con “carezze” o “tenerezze”, è il plurale di dôd. Questo termine ha due significati principali: può indicare un parente stretto come uno zio (vedi Lv 10,4; 1Sam 10,14-16; Est 2,7), oppure la persona amata, il “diletto”. Quando è al singolare con l’aggettivo possessivo (dôḏı̂), significa “amore mio”. Nel Cantico dei Cantici, quest’ultimo uso è molto frequente e indica l’uomo sia nelle parole della donna che del coro3.
Dal singolare dôd al plurale dôdîm, in ebraico, avviene una trasformazione simile a quella che in italiano porta da “caro” a “carezza”. Il plurale non indica necessariamente l’atto sessuale4, ma piuttosto il gioco amoroso fatto di carezze e baci, qualcosa di simile a ciò che in inglese si chiama petting.
Fuori dal Cantico, il termine dôdîm appare solo tre volte nell’Antico Testamento. In Ez 16,8, Gerusalemme è descritta come una bambina che cresce fino al “tempo dell’amore” (ʿēt dōdîm), quando Dio la prende in sposa. In Ez 23,17, dove Israele e Giuda sono paragonate a due sorelle che si prostituiscono, troviamo il termine “letto d’amore” (miškaḇ dōdı̂m) riferito alla prostituzione con i Babilonesi. In Pr 7,18, la seduttrice che rappresenta l’empietà invita a “saziarsi d’amore (nirwê dōdı̂m) fino al mattino”. Mentre negli ultimi due casi il termine dôdîm esprime una deviazione dall’unione coniugale, in Ez 16,8 descrive l’unione santa tra Dio e la sua amata, come nel Cantico.
L’aggettivo ṭôḇ, qui tradotto con “dolce”, ha un significato molto ampio che include varie esperienze umane: il piacere estetico, fisico e spirituale. Per questo può essere tradotto come “bello”, “felice”, “piacevole”, “utile”, “buono”. Nel versetto 2, il riferimento al “vino” suggerisce un legame con la gioia e il piacere dei sensi. Tuttavia sarebbe limitante vedere in ṭôḇ solo il piacere fisico: il termine mantiene anche un valore morale, come quando in Gen 1,31 descrive la “bontà” originaria della creazione, prima del peccato.
Dopo aver esaminato il significato letterale del testo (pešat), soffermandoci sul repentino cambio di soggetto che investe il destinatario di chi sta parlando. Il passaggio da “egli” a “tu” è così brusco che alcuni traduttori hanno cercato di eliminarlo, rendendo la prima frase con un imperativo: “Baciami con i baci della tua bocca…”. Tuttavia, il testo ebraico dice altro.
Se l’amata esprime il suo desiderio con una preghiera («che mi baci…») nel primo rigo poetico del versetto 2, è perché in lei arde già il fuoco delle «tue tenerezze». Queste tenerezze sono «deliziose» (ṭôḇı̂m), tanto da superare il vino stesso. Il desiderio è qui palpabile, ma, come vedremo nel corso del Cantico, non è un desiderio che cerca l’appagamento totale. È piuttosto, per usare le parole di Recalcati, la forza di un desiderio che aspira a godere «di tutto», ma che rinuncia al godimento «del tutto», riconoscendo che il godimento a cui può accedere è il godimento del «non-tutto»5.
Quando si tratta dei piaceri dei sensi, la dinamica è semplice e prevedibile: ogni piacere ha il suo limite. Il vino, il miele, persino l’acqua più pura – tutto ciò che nutre il corpo raggiunge un punto di saturazione. Oltre quella soglia, il piacere si trasforma in disgusto, il troppo diventa veleno.
Ma quando si tratta di amore, sapienza, umiltà o bontà, le regole cambiano radicalmente. Questi doni spirituali seguono una logica differente: più li si riceve, più cresce il desiderio di possederli. Non c’è saturazione, non c’è stanchezza, ma solo un desiderio che si fa sempre più intenso.
La stessa Sapienza proclama questa verità nel libro del Siracide:
Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, perché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete (Sir 24,19-21).
Questo paradosso spirituale trova la sua massima espressione nel dialogo tra Gesù e la samaritana al pozzo di Giacobbe: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno» (Gv 4,13-14).
Nell’incontro con Dio, il vuoto interiore viene colmato, ma il desiderio non si spegne. Al contrario, si trasforma in una sorgente perenne che genera vita nuova. È questa l’economia misteriosa dello spirito: una sazietà che non soffoca il desiderio, ma lo accende; una pienezza che non chiude, ma apre a una comunione sempre più profonda.
- La Settanta è la traduzione greca del testo ebraico; la Vulgata la traduzione latina. ↩
- DHC, kî n. 9. ↩
- Ct 1,13.14-16; 2,3.8.9.10.16.17; 4,16; 5,1.2.4.5.6 (2x).8.9 (4x).10.16; 6,1(2x).2.3 (2x); 7,10.11.12.14; 8,5.14. ↩
- Fox. The Song of Songs and the Ancient Egyptian Love Songs, 97.139, propone, rifacendosi a paralleli egiziani, l’espressione “fare l’amore”. È però una forzatura. ↩
- Recalcati, La legge del desiderio, 94. ↩