Il Cantico irrompe nella nostra vita come un vento impetuoso1. Basta una sola riga di titolo (cf. Ct 1,1 e il post precedente) ed ecco che siamo avvolti da un turbine di sentimenti.
Le domande affiorano spontanee: chi è questa voce femminile che vibra di desiderio? Gli studiosi si sono a lungo interrogati sulla sua identità. Alcuni hanno voluto riconoscerci la celebre Sulammita (cfr. Ct 7,1), altri una delle mogli di Salomone. Le tradizioni interpretative hanno però saputo andare oltre l’aspetto puramente storico: nella lettura ebraica, questa voce è quella del popolo di Israele che anela al suo Dio; nella tradizione cristiana, diventa la voce della Chiesa, corpo mistico di Cristo, o dell’anima del credente nel suo cammino verso l’Amato. Ma forse possiamo spingerci oltre, anche a costo di far storcere il naso a qualche purista: potremmo chiamarla come la chiama il suo amato stesso, Raʿyāṯî, «amore mio».
In quale luogo si trova? Quale storia la precede? Prima ancora di conoscere queste risposte, percepiamo l’eco dei suoi sospiri, il fremito della sua attesa. È la stessa sorpresa con cui l’amore bussa alla porta della vita: senza preavviso, durante un giorno qualunque, ci fa vacillare e ci lascia senza fiato.
2a. Che mi baci con i baci della sua bocca | יִשָּׁקֵ֙נִי֙ מִנְּשִׁיק֣וֹת פִּ֔יהוּ |
yiššāqēnı̂ minnᵉšı̂qôṯ pı̂hû | |
b. perché [sono] dolci le tue carezze [più] del vino | כִּֽי־טוֹבִ֥ים דֹּדֶ֖יךָ מִיָּֽיִן׃ |
kı̂-ṭôḇı̂m dōḏeḵā mı̂yyāyin: |
Il desiderio di Raʿyāṯî è travolgente e, al contempo, cristallino come l’acqua di sorgente: non qualsiasi bacio, ma i baci che sgorgano direttamente dalla bocca dell’amato. La lingua ebraica qui si fa musica pura, una danza di suoni che accarezza l’anima: yiššāqēnî minnᵉšı̂qôṯ pîhû – «Che mi baci con i baci della sua bocca!» – dove il dolce sussurro della lettera š (suono sci in italiano) si ripete come un’eco d’amore, intrecciandosi con le parole del primo verso in una melodia che rapisce.
In questo gioco di passione, l’amato si trasforma magicamente da un distante “lui” a un intimo “tu”, come se il solo pronunciare il desiderio lo avvicinasse al cuore della donna. Il verbo ebraico (nāšaq), nella sua forma volitiva alla terza persona2, racchiude un intero universo di emozioni: è supplica e preghiera insieme, la più sublime che un cuore innamorato possa sussurrare. È un’invocazione che nasce nel profondo dell’anima e fiorisce sulle labbra – quelle stesse labbra che sono tempio della parola e santuario dell’amore più tenero e reciproco.
La voce dell’amante trema di desiderio in quel «che mi baci», sussurrato quasi a se stessa. Non è ancora pronta a rivolgersi direttamente a colui che il suo cuore brama: quel momento arriverà, ma non ora. Alcuni traduttori, interpretando erroneamente il testo, hanno reso la frase con un imperativo: «Baciami» (come nella TOB). Ma non è questo che Raʿyāṯî dice. Nel suo desiderio arde sì una fiamma intensa, ma è una fiamma che danza con grazia, che non pretende, non esige, non ordina.
È come se lei sussurrasse al vento: «Verrà il suo bacio, quando il suo cuore lo vorrà, se lo vorrà, nel momento che sceglierà lui stesso. Non sono io a decidere il tempo dell’amore, ma voglio che il mondo intero sappia che non c’è nulla che desidero di più». In questa preghiera d’amore si nasconde un tesoro prezioso: la libertà assoluta di chi ama e di chi è amato.
La prima parte del verso si chiude con il termine pîhû, che in ebraico significa «sua bocca» e qui la lingua ebraica ci regala una magia nascosta: pronunciando pîhû, le labbra si protendono naturalmente come in un bacio3, quasi che le parole stesse volessero trasformarsi in carezze. È come se la lingua dell’amore si facesse carne, e il suono stesso diventasse un gesto di tenerezza.
Le Scritture ci raccontano anche di un altro bacio significativo, quello che Mosè ricevette sul monte Nebo, sul Pisga in terra di Moab. Dt 34,5 recita: «Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nella terra di Moab, alla presenza di Yhwh». Mentre le traduzioni comuni riportano «secondo l’ordine del Signore», il senso letterale è più sorprendente: «sulla bocca di Yhwh».
Un antico midrash racconta che l’angelo della morte, giunto per adempiere al suo dovere, si trovò in difficoltà. Mosè era immerso nella Torah: la meditava nel cuore e continuava a trascriverne le parole di vita, una dopo l’altra. La sua concentrazione era così intensa che l’angelo, frustrato, dovette tornare dal suo Signore: non poteva svolgere il suo compito con Mosè così assorbito nella Torah.
Fu allora che il Signore stesso intervenne. Si avvicinò a Mosè, posò le sue labbra sulle sue in un bacio e, in quell’istante, raccolse sia il soffio vitale sia le parole della Torah. Fu quello il momento in cui l’angelo della morte poté completare la sua missione.
Il bacio più amaro del Nuovo Testamento è quello di Giuda, che Marco racconta con parole essenziali: «Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: “Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta”. Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò» (Mc 14,44-45).
È un bacio vuoto, in cui persino quell’unica parola – “Rabbì” – sembra spegnersi nella gola del traditore. I gesti rivelano sempre le intenzioni di chi li compie, e qui un gesto d’amore si trasforma nel suo opposto: il bacio diventa un segnale nella notte, un marchio per identificare la preda. In questo bacio non c’è più spazio per la fiducia, l’intimità o qualsiasi forma di reciprocità.
Secoli dopo, Dostoevskij riprende questo gesto nella “Leggenda del grande inquisitore” dei Fratelli Karamazov. Al lungo discorso dell’inquisitore, Gesù risponde solo con un bacio sulle sue labbra. È come se quel gesto continuasse a risuonare nel tempo: Gesù che offre ancora il suo bacio, vulnerabile e aperto all’altro, in attesa di una risposta… forse la mia o la tua?
Non vorrei concludere con tono mesto dopo l’inizio infuocato del Cantico. C’è un altro bacio che ha segnato la storia di molte donne e uomini: un bacio dato con tutta l’anima e il corpo, capace di trasformare «ciò che sembrava amaro in dolcezza dell’animo e del corpo». Questo bacio è quello di Francesco al lebbroso, di cui il Testamento svela l’effetto prodotto nell’animo e nel corpo del santo. Tommaso da Celano ce ne ha lasciato il racconto in due biografie (FF. 348 e 692). Ecco cosa accadde, secondo la seconda biografia:
Fra tutti gli orrori della miseria umana, Francesco sentiva ripugnanza istintiva per i lebbrosi. Ma ecco, un giorno ne incontrò proprio uno, mentre era a cavallo nei pressi di Assisi. Ne provò grande fastidio e ribrezzo; ma per non venire meno alla fedeltà promessa, come trasgredendo un ordine ricevuto, balzò da cavallo e corse a baciarlo. E il lebbroso, che gli aveva steso la mano come per ricevere qualcosa, ne ebbe contemporaneamente denaro e un bacio. Subito risalì a cavallo, guardò qua e là – la campagna era aperta e libera tutt’attorno da ostacoli –, ma non vide più il lebbroso. Pieno di gioia e di ammirazione, poco tempo dopo volle ripetere quel gesto: andò al lebbrosario e, dopo aver dato a ciascun malato del denaro, ne baciò la mano e la bocca.
Francesco, da quel giorno, non si è più accontentato di un bacio solo: anche lui, come la donna del Cantico dei cantici, voleva essere baciato «con i baci della Sua bocca» per sempre!
- Ct 1,2 inaugura la prima strofa dopo il titolo. La prima strofa, che si presenta come un vero e proprio sogno d’amore, si estende dai versetti 2 ai 4. Il versetto 5 segna infatti l’inizio di un nuovo argomento, delimitando con precisione questa prima unità testuale. La sua struttura si articola in due sezioni ben definite: i versetti 2-3 da una parte e il versetto 4 dall’altra. Ciascuna di queste sezioni si apre con una richiesta pressante, caratterizzata da una significativa somiglianza fonetica: yiššāqēnî («[egli] mi baci») al versetto 2a e mošḵēnî («portami via») al versetto 4a. Entrambe le parti si concludono con un finale corale in cui risuona la parola chiave ʾahēḇ («amare»): «Per questo le fanciulle ti amano» (v. 3c) e «A ragione ti amano» (v. 4e). Tra l’inizio e la conclusione si dispiegano parole di ammirazione, la cui corrispondenza è segnata dalla ricorrenza dell’espressione dōḏeḵā mîyyāyin («le tue carezze più del vino», vv. 2b.4d).
L’apertura delle due parti è inoltre caratterizzata da un sapiente gioco di cambi di soggetto. Il versetto 2 si avvia con un discorso in terza persona («[Egli] mi baci») per poi passare improvvisamente alla seconda persona («le tue carezze»). Il movimento si inverte nel versetto 4, che dalla seconda persona («portami via») scivola alla terza («il re mi ha introdotto»). Non si tratta di errori da emendare o di stratificazioni redazionali, ma di un consapevole effetto stilistico che crea un chiasmo (a-b-b’-a’). Questi frequenti cambi di soggetto generano un effetto di “improvviso” musicale, perfettamente adeguato al carattere di “ouverture” della strofa.
Cfr. G. BARBIERO, Cantico dei Cantici. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici. Primo Testamento 24), Paoline, Milano 2004, 63-64. ↩ - Il verbo è un imperfetto iussivo. Per il significato cfr. DHC, nāšaq. ↩
- Così osserva G. Ravasi, Il Cantico dei Cantici. Commento e attualizzazione (Testi e commenti 4), EDB, Bologna 1992, 151. ↩