Cantico dei Cantici

Sono bruna: Ct 1,6

Il versetto 6 è strettamente legato a quello precedente con cui forma la seconda strofa1.

a. Non guardate me se sono bruna
ʾal-tirʾûnı̂ šeʾᵃnı̂ šᵉḥarḥōreṯ
אַל־תִּרְא֙וּנִי֙ שֶׁאֲנִ֣י שְׁחַרְחֹ֔רֶת
b. perché mi ha abbronzato il sole.
šeššᵉzāp̱aṯnı̂ haššāmeš
שֶׁשֱּׁזָפַ֖תְנִי הַשָּׁ֑מֶשׁ
c. I figli di mia madre si sono adirati con me;
bᵉnê ʾimmı̂ niḥᵃrû-ḇı̂
בְּנֵ֧י אִמִּ֣י נִֽחֲרוּ־בִ֗י
d. mi hanno messo custode della vigna
śāmunı̂ nōṭērâ ʾeṯ-hakkᵉrāmı̂m
שָׂמֻ֙נִי֙ נֹטֵרָ֣ה אֶת־הַכְּרָמִ֔ים
e. la mia vigna, quella mia, non l’ho custodita. כַּרְמִ֥י שֶׁלִּ֖י לֹ֥א נָטָֽרְתִּי׃
karmı̂ šellı̂ lōʾ nāṭortı̂:  

Il testo ebraico ʾal-tirʾûnı̂ šeʾᵃnı̂ šᵉḥarḥōreṯ («Non guardate me se sono bruna») ci introduce in un mondo di sottili sfumature linguistiche. La protagonista si rivolge alle «figlie di Gerusalemme» (Ct 1,5b) con un’urgenza palpabile, utilizzando la particella negativa ʾal seguita da una forma verbale di natura volitiva per esprimere un imperativo negativo. Non è un semplice divieto, ma piuttosto una richiesta accorata, quasi timida, che nasce da un intimo imbarazzo.

Il termine šᵉḥarḥōreṯ, con la sua melodiosa allitterazione della coppia consonantica ḥr, dipinge il ritratto di una donna “brunetta” – non con un’intensificazione del colore, come alcuni hanno interpretato in passato, ma con una sfumatura affettuosa, quasi vezzeggiativa. È il sole che l’ha «guardata» (šeššᵉzāp̱aṯnı̂), un’espressione poetica per descrivere l’abbronzatura della sua pelle sotto i raggi intensi del sole mediterraneo. Questo verbo, šāzap̱, appare anche in Giobbe 20,9 e 28,7, dove assume il significato di “scorgere, guardare”, ma qui acquisisce una sfumatura unica, suggerendo una trasformazione fisica che porta con sé un significato più profondo.

In 1,6c l’attenzione si sposta poi sui «figli di mia madre», un’espressione che nel contesto dell’antico Israele porta con sé tutto il peso delle responsabilità familiari. I fratelli, specialmente quelli nati dalla stessa madre, erano i custodi dell’onore familiare, con particolare attenzione alla salvaguardia delle verginità delle sorelle e alla gestione dei loro matrimoni. Questa struttura sociale, tipica delle società patriarcali del tempo, creava un complesso sistema di protezione ma anche di controllo.

La loro presenza è caratterizzata dal verbo niḥᵃrû «adirarsi». Si tratta della terza persona plurale Nifal del verbo ḥārâ, il cui significato fondamentale è “essere caldo, bruciare”. L’immagine evoca il fuoco della collera. Come il sole brucia la pelle della giovane donna, così l’ira dei fratelli brucia la sua anima. È interessante notare come questa metafora del calore si ripeta: il sole che brucia fisicamente e la collera che brucia emotivamente creano un parallelismo poetico di straordinaria efficacia. E qual è la causa di questa collera? La donna ammette con chiarezza: «La mia vigna, quella mia, non l’ho custodita!» (1,6e).

Il termine ebraico kerem, «vigna», appare strategicamente due volte nel versetto, prima al plurale (kᵉrāmı̂m in 1,6d) e poi al singolare (karmı̂ in 1,6e). Questo gioco linguistico nasconde un significato più profondo, che risuona attraverso tutta la tradizione biblica. Il parallelo più immediato è con il celebre canto della vigna di Isaia 5,1-7, dove il profeta rivela: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele».

Questo tema viene ripreso nel Salmo 80,9.15: «Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata… Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna». L’assenza di custodia diventa così metafora dell’irruzione del nemico, conseguenza del peccato d’Israele. Il profeta descrive vividamente questa condizione: «Toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni» (Is 5,5-6).

La metafora della vigna ricorre in altri punti cruciali del Cantico: in 2,15, 7,13 e 8,11-12 che è il passo più vicino al nostro. In questi passi, la vigna mantiene la sua duplice valenza di luogo fisico e simbolo spirituale, creando un ricco tessuto di significati che si intrecciano e si arricchiscono reciprocamente.

Nel contesto immediato del Cantico, la donna afferma con forza la proprietà della sua vigna («la mia vigna, quella mia»), ribadendo che la decisione sull’amore appartiene a lei, non ai fratelli. È una dichiarazione rivoluzionaria che sfida apertamente le strutture della società patriarcale e maschilista del tempo. La donna rivendica il diritto di decidere del proprio amore, opponendosi a un sistema che vedeva la donna come oggetto di scelte altrui. Tuttavia, questa non è un’apologia del “libero amore” nel senso moderno del termine.

Il Cantico celebra infatti il valore della castità, descrivendo la donna come «giardino chiuso, fontana chiusa, sorgente sigillata» (Ct 4,12). Ma questa chiusura non è fine a se stessa – il giardino è chiuso per essere aperto all’amato (4,16), i frutti sono conservati per essere donati a lui (7,13). La castità diventa così qualità preziosa dell’amore, non imposizione sterile. La visione dell’amore qui rappresentata è critica nei confronti della famiglia e della società patriarcale, ma al tempo stesso propone un modello di libertà responsabile, dove la castità non è una costrizione sociale ma una scelta d’amore. Questa visione equilibrata dell’amore umano diventa paradigma di una relazione più profonda, quella tra Dio e il suo popolo.

Il tema della vigna non custodita risuona spesso nei testi profetici come metafora dell’infedeltà di Israele. Ma proprio qui si manifesta un paradosso spirituale straordinario: quando Israele è esiliato e privato del culto che lo abbellisce agli occhi del Signore, quella che sembra una punizione si trasforma in strumento di glorificazione. L’esperienza dell’esilio, che agli occhi del mondo appare come segno di abbandono divino, diventa paradossalmente via di elevazione spirituale.

Tale dinamica trova il suo pieno compimento nella teologia cristiana della croce. Come afferma il Vangelo di Giovanni, è proprio attraverso la croce che Cristo viene elevato alla gloria. Paolo echeggia il medesimo paradosso quando dichiara di gloriarsi solo della sua debolezza, mentre i mistici cristiani hanno costantemente testimoniato che l’oscurità più profonda può diventare luce divina.

Martin Lutero, nelle sue Tesi di Heidelberg, cattura la stessa verità con straordinaria precisione: «Non è propriamente un teologo colui che vede le cose invisibili di Dio, conosciute nelle creature; è invece propriamente un teologo colui che conosce le parti visibili e indecenti di Dio, viste nelle sofferenze e nella croce». La liturgia pasquale celebra il paradosso nell’Exultet con l’esclamazione «O felix culpa!» – Oh felice colpa [di Adamo ed Eva] che ha meritato un tale e così grande redentore!

Bernardo di Chiaravalle sintetizza magnificamente questa tensione descrivendo la chiesa e l’anima credente come «A un tempo tenda di Chedar e santuario di Dio! A un tempo dimora terrena e santuario di Dio…! A un tempo corpo di morte e tempio di luce! A un tempo disprezzabile fino all’eccesso e sposa di Cristo». In questa descrizione paradossale, troviamo espressa la profonda verità della trasformazione spirituale.

Gregorio di Nissa offre una chiave di lettura per comprendere questa trasformazione: «Quando il Signore prende qualche anima oscura presso di sé, la rende bella per mezzo della comunione con sé stesso». Questo incontro trasformante avviene nel Tempio spirituale, dove il Santissimo coperto da tende diventa il luogo dell’incontro con il Signore «su un trono alto e molto elevato» (Is 6).

Il Targum offre un’interpretazione illuminante dei versetti 5-6, che sintetizza magnificamente questo percorso spirituale: «Quando il popolo della casa di Israele fece il vitello, la sua faccia divenne nera come i figli di Cush che dimorano nelle tende di Chedar, ma quando si pentì e fu perdonato, lo splendore della gloria del suo volto divenne grande come quella degli angeli, poiché aveva fatto le tende per il tabernacolo, e la Shekinah aveva preso dimora presso di loro»2.

In questa luce, la confessione della donna del Cantico – «la mia vigna non l’ho custodita» – diventa paradigma di ogni anima che, attraverso l’apparente “abbandono”, scopre una custodia più alta e una bellezza più profonda, trasformata dall’incontro con l’Amore divino.

È un percorso che passa attraverso l’umiliazione per giungere alla gloria, attraverso la perdita apparente per trovare un guadagno più profondo, attraverso l’oscurità per giungere alla luce più vera.


  1. Per approfondire la relazione tra i due versetti rimando all’articolo precedente.
  2. U. NERI, Il Cantico dei Cantici. Antica interpretazione ebraica (Commenti ebraici antichi alla Scrittura), Città nuova, Roma 1976, 84-85.

 

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