La seconda strofa del Cantico (vv. 5-6) segna un cambio di scena e di prospettiva significativo rispetto ai versi precedenti. Se la prima strofa (vv. 2-4) ci aveva proiettati nell’atmosfera lussuosa della corte, con i suoi profumi e i suoi vini pregiati, ora veniamo catapultati nella realtà quotidiana della campagna, dove il sole brucia la pelle e le vigne necessitano di continue cure. Questo contrasto non riguarda solo l’ambiente, ma anche la struttura narrativa: il protagonista maschile scompare momentaneamente per lasciare spazio alla voce femminile, che si presenta con un’audace autodichiarazione.
La struttura di questi due versetti, finemente architettata, si articola in due parti principali, ciascuna aperta dal riferimento al colore della pelle della protagonista. La prima parte (v. 5) sviluppa questo tema attraverso due suggestive similitudini: le tende di Kedar e le cortine di Salomone, mentre la seconda (v. 6) ne fornisce una spiegazione concreta: la rabbia dei fratelli e la custodia forzata delle vigne. L’ultimo rigo poetico del v. 6 si distacca come una coda significativa, che riprende e trasforma i motivi della “vigna” e della “custodia” in una chiave sorprendentemente personale.
Nonostante questa apparente discontinuità con la strofa precedente, sottili fili narrativi mantengono la coesione del testo. Il riferimento alle «cortine di Salomone» riecheggia l’ambiente regale appena lasciato, mentre le «figlie di Gerusalemme» richiamano le «fanciulle» già menzionate. Persino la metafora della vigna si ricollega al tema del vino presente nei versetti precedenti. Se la prima strofa descriveva un sogno d’amore, questi versetti ne rappresentano il primo passo verso la realizzazione concreta, segnando il momento in cui la protagonista, contro la volontà dei fratelli che vorrebbero controllarla, decide di seguire il richiamo del proprio cuore.
a. Nera io [sono] ma bella šᵉḥôrâ ʾᵃnı̂ wᵉnāʾwâ |
שְׁחוֹרָ֤ה אֲנִי֙ וְֽנָאוָ֔ה |
b. figlie di Gerusalemme bᵉnôṯ yᵉrûšālāim |
בְּנ֖וֹת יְרוּשָׁלִָ֑ם |
c. come le tende di Kedar kᵉʾohᵒlê qēḏor |
כְּאָהֳלֵ֣י קֵדָ֔ר |
d. come le cortine di Salomone kı̂rı̂ʿôṯ šᵉlōmōh: |
כִּירִיע֖וֹת שְׁלֹמֹֽה׃ |
La bellezza che sfida le convenzioni: potremmo intitolare così l’audace autopresentazione della protagonista del Cantico dei Cantici. «Sono nera, ma bella», dichiara con fierezza alle figlie di Gerusalemme, usando un linguaggio che intreccia l’umiltà della sua condizione con una dignità sorprendente per l’epoca.
La voce femminile emerge con straordinaria forza in questi versi, come testimonia l’uso insistito del pronome “io”, che risuona ben undici volte nel libro. È un’affermazione di identità tanto più significativa quanto più si considera il contesto storico-culturale patriarcale in cui il testo è nato. Questa presenza femminile così marcata ha persino portato alcuni studiosi a ipotizzare che il Cantico sia stato scritto da una misteriosa “Saffo ebraica”, sebbene questa rimanga una suggestione più che un’ipotesi verificata.
Il termine ebraico šeḥorah («nera»), seguito dal suo vezzeggiativo šeḥarḥoret, non descrive tanto un colore, quanto una storia: quella di una donna segnata dal sole dei campi, dove il lavoro ha lasciato sulla sua pelle l’impronta di una vita autentica. Non si tratta della «nerezza» della malattia che affliggeva Giobbe né di quella della carestia che Geremia piangeva sulle mura di Gerusalemme 1. Piuttosto, è il segno distintivo di chi non teme di mostrarsi per quello che è, anche quando questo va contro gli ideali estetici del tempo. E c’è di più: la stessa radice ebraica šāḥar, che indica il nero, racchiude un’affascinante ambivalenza, evocando anche l’aurora con le sue ombre che precedono la luce. Non è un caso che, più avanti nel Cantico (6,10), la stessa protagonista venga paragonata proprio all’aurora, quasi il suo essere “nera” nascondesse già la promessa di una luce nascente.
«Come le tende di Kedar, come le cortine di Salomone»: con questo duplice paragone, la protagonista si colloca simbolicamente tra due mondi. Da un lato, le tende scure dei nomadi di Kedar, realizzate con pelli di animali e simbolo di una vita semplice e autentica. Dall’altro lato, i sontuosi padiglioni del re più saggio d’Israele, che potrebbero riferirsi sia alle tende che custodivano l’Arca dell’Alleanza, sia ai tessuti preziosi del Tempio in costruzione.
Le «figlie di Gerusalemme», a cui la protagonista si rivolge, non sono una vaga metafora poetica, ma donne reali della città, probabilmente le stesse giovani che il Cantico chiama anche “vergini” e che “amano” Salomone. A loro, che forse rappresentano l’élite della società, la protagonista non nasconde la propria condizione: i suoi fratelli l’hanno costretta a lavorare nelle vigne sotto il sole cocente, circostanza che rivela il suo status sociale inferiore.
Eppure, in questa confessione di “nerezza” c’è qualcosa di profondamente rivoluzionario. In un contesto culturale in cui la bellezza era associata al candore della pelle – il Cantico descrive l’amato come “bianco e vermiglio” – questa donna osa affermare la propria avvenenza nonostante – o forse proprio in virtù di – quella pelle scurita dal sole. È significativo che il termine usato per descrivere la sua bellezza, nāʾwê, sia riservato esclusivamente a lei in tutto il Cantico, mentre l’aggettivo più comune yāp̱â viene utilizzato in modo intercambiabile per entrambi gli amanti.
Il suo non è solo un atto di coraggio personale, ma un anticipo di quella grande rivoluzione spirituale in cui gli ultimi saranno i primi. Non a caso, i profeti hanno visto in Kedar una prefigurazione della salvezza universale. Isaia, in particolare, profetizza due volte il destino glorioso di questa tribù nomade: prima annuncia che «gli abitanti di Kedar alzeranno la loro voce» per celebrare il Servo sofferente (Is 42,11), poi, in una visione ancora più grandiosa, proclama che «tutte le greggi di Kedar si raduneranno presso di te» (Is 60,7). Questa profezia si inserisce in un contesto luminoso in cui «la luce sorge sulle tenebre» e le nazioni convergono verso Gerusalemme portando «oro e incenso» (Is 60,6), un’immagine che troverà il suo compimento nell’adorazione dei Magi (Mt 2,1-11). Così, quella stessa Kedar, che nelle parole di Geremia era simbolo di inimicizia (Ger 49,28-29) e che il salmista ricordava come luogo di esilio («Ahimè, abito presso le tende di Kedar!», Sal 120,5), diventa, nella visione profetica, segno di quella riconciliazione universale che il Messia avrebbe portato.
Attraverso la voce di questa donna che non teme di proclamare la propria bellezza “non convenzionale”, il Cantico ci consegna un messaggio di straordinaria attualità: la vera bellezza non sta nel conformarsi agli standard sociali, ma nell’autenticità di chi sa riconoscere e affermare il proprio valore, anche quando questo sfida le convenzioni del proprio tempo.
Il paragone con «le tende di Kedar» e «le cortine di Salomone» rivela una costruzione poetica raffinata che va ben oltre la semplice similitudine. Nel testo ebraico, i termini «tende» (ʾōhel) e «cortine» (yᵉrı̂ʿâ) creano un perfetto parallelismo sinonimico, una figura retorica che ritroviamo anche in altri testi profetici come Ger 10,20 e Ab 3,7. È particolarmente significativo che il termine yᵉrı̂ʿâ appaia ben quarantaquattro volte nei capitoli 26 e 36 dell’Esodo, sempre in riferimento al tabernacolo: le sue pareti interne erano infatti formate da dieci tende di lino con ricami in blu, viola e scarlatto, mentre il secondo strato era costituito da undici tende di pelo di capra, naturalmente scure. Ma c’è di più: il nome stesso “Kedar” nasconde un gioco di parole sulla radice qādar («essere scuro»), creando un sottile rimando alla carnagione abbronzata della protagonista. La scelta di questi paragoni non è casuale: le tende dei nomadi erano infatti realizzate con pelli scure di animali, mentre i padiglioni o cortine regali, pur essendo spesso decorati con tessuti colorati, dovevano presentare anch’essi una tonalità scura, proprio come le tende esterne del tabernacolo che, secondo il libro dell’Esodo, erano realizzate con pelli di capra e montone. Questa sovrapposizione di riferimenti – dal nomadismo di Kedar alla regalità di Salomone, dalle umili pelli di animali ai preziosi tessuti del tabernacolo – crea una ricca trama di significati che eleva la “nerezza” della protagonista da semplice dato fisico a potente simbolo spirituale.
- Interessante che il Targum così interpreta il colore nero: «Quando i figli della casa d’Israele fecero il vitello, i loro volti divennero neri come quelli dei figli di Kush, che abitano nelle tende di Kedar». Testo ripreso da U. NERI, Il Cantico dei Cantici. Antica interpretazione ebraica (Commenti ebraci antichi alla Scrittura), Città nuova, Roma 1976, 84. ↩