Al versetto 10 assistiamo a un cambio di prospettiva significativo. L’amato, Salomone, interrompe il movimento della scena precedente, dominata dall’immagine della cavalla, e si concentra sul volto dell’amata: «Belle sono le tue guance tra gli ornamenti, il tuo collo tra le collane». Dalla vivacità di un’elegante cavalla tra i carri del Faraone, lo sguardo si fa ora intimo e contemplativo, come una carezza che indugia sui tratti più seducenti del volto amato.
a. Sono belle le tue guance tra i pendagli nāʾwû lᵉḥāyayiḵ battōrı̂m |
נָאו֤וּ לְחָיַ֙יִךְ֙ בַּתֹּרִ֔ים |
b. il tuo collo tra i fili [di perle]. ṣawwāʾrēḵ baḥᵃrûzı̂m. |
צַוָּארֵ֖ךְ בַּחֲרוּזִֽים׃ |
Il verbo ebraico che apre il versetto (nāʾwû) è stato interpretato in modi differenti dagli studiosi1. Alcuni lo collegano alla radice nā’āh (“essere avvenente“), altri alla radice ʾāwāh (“desiderare“). Nonostante queste sfumature linguistiche, il significato essenziale rimane lo stesso: esprime bellezza e attrattiva. È particolarmente significativo che questa radice sia la stessa dell’aggettivo nāʾwê con cui la donna si era descritta al versetto 5, creando così un sottile legame poetico tra la sua auto-percezione e lo sguardo ammirato dell’amato che ora la contempla.
Il termine tôrîm («orecchini, pendagli»), gli ornamenti che incorniciano le guance, presenta particolari difficoltà testuali. Le antiche versioni greca (τρυγόνες) e latina hanno interpretato il termine come “tortore“, confondendolo con l’omografo tôr che ricorre in Ct 2,12. Tuttavia, il contesto e in particolare il parallelo con il versetto successivo, dove si parla di «orecchini d’oro» (tôrê zahāḇ), suggeriscono chiaramente che si tratti di ornamenti preziosi. L’archeologia offre diverse possibilità interpretative: i reperti dell’antico Egitto, in particolare dell’epoca di Amenofis IV, mostrano volti femminili adorni di pendenti circolari e gioielli elaborati. Le testimonianze della Mesopotamia e dell’Egitto offrono varie opzioni: orecchini pendenti, nastri decorativi sul copricapo o dischi metallici lucidi che incorniciavano il viso.
Il parallelismo poetico ci conduce dal viso al collo (ṣawwāʾr), anch’esso impreziosito da gioielli. Il termine ebraico ḥărûzîm, che compare solo qui in tutta la Bibbia, indica probabilmente una collana di perle o pietre preziose. È significativo che il collo della donna amata sia oggetto di ripetuta ammirazione nel Cantico: oltre a questo passo, viene celebrato anche in 4,4 e 7,5, dove viene paragonato a una “torre”, immagine che evoca un collo lungo e proteso. Non si tratta del collo“altezzoso” criticato dal profeta Isaia nelle figlie di Sion (Is 3,16), ma piuttosto dell’espressione di una nobiltà naturale che si manifesta anche attraverso il portamento.
La bellezza emerge qui dall’armoniosa fusione tra natura e arte, tra la grazia innata delle forme e il raffinamento degli ornamenti. L’interpretazione allegorica, che vorrebbe trasporre le immagini delle guance e del collo, degli orecchini e delle collane in una bellezza interiore fatta di virtù, appare quasi superflua: la contemplazione della bellezza fisica è già di per sé un momento di elevazione spirituale. Il desiderio di essere amati si manifesta anche attraverso la cura di sé, e l’amore autentico sa cogliere sia la bellezza esteriore sia quella interiore, in un’unica esperienza di rapimento. Non è forse questo che intendeva Socrate nel Fedro quando si definiva innamorato del bello e “amante dei discorsi“ (philó–logos) che parlano dell’amore?
Il linguaggio poetico del Cantico trasforma una semplice descrizione in un momento di intensa intimità spirituale. Gli ornamenti non sono semplici accessori di vanità, ma diventano una cornice che esalta la bellezza naturale, in un gioco di rimandi tra arte e natura che celebra la dignità della persona amata. Come nel dialogo platonico, qui il lógos, la bellezza e l’amore si generano reciprocamente, invitando a riscoprire come l’amore sappia cogliere la bellezza in ogni sua manifestazione, dove forma esteriore e profondità interiore sono reciprocamente attratte da ciò che è più bello, dal sublime, dal valore dei valori che è un tutto unico: bellezza, bontà, bene supremo.
- Le analisi morfologiche nei principali vocabolari ebraici divergono: HALOT (L. Koehler – W. Baumgartner, The Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old Testament) classifica nāʾwû come una forma Qal (3a pers. pl. perfetto) dalla radice originale nʾw, dove la waw è una consonante (con la alef quiescente); BDB (Brown-Driver-Briggs, Hebrew and English Lexicon) propone di leggerlo come una forma piʾlel di nʾh; DCH (Dictionary of Classical Hebrew) lo interpreta come paʾlel della stessa radice; GKC (Gesenius-Kautzsch-Cowley, Hebrew Grammar) lo considera un niphal di ʾwh (“desiderare“). Queste diverse letture morfologiche influenzano solo leggermente la sfumatura semantica, che oscilla tra “essere piacevole/delizioso”, “essere avvenente” e “essere desiderabile”. ↩