Con il versetto 7 entriamo nella terza strofa (Ct 1,7-8). L’ambientazione pastorale, che caratterizza l’intera strofa, viene interrotta bruscamente al versetto 9, dove il testo ci proietta in un contesto completamente diverso, con l’introduzione del motivo regale del “faraone”. Data la ricchezza di questa scena bucolica, dedicherò un post specifico all’analisi di ciascun versetto.
a. Dimmi, amore dell’anima mia, haggı̂ḏâ lı̂ šeʾohᵃḇâ nap̱šı̂ |
הַגִּ֣ידָה לִּ֗י שֶׁ֤אָהֲבָה֙ נַפְשִׁ֔י |
b. Dove vai a pascolare [il gregge]? ʾêḵâ ṯirʿê |
אֵיכָ֣ה תִרְעֶ֔ה |
c. Dove vai a far[lo] riposare nel meriggio? ʾêḵâ tarbı̂ṣ baṣṣahᵒrāyim |
אֵיכָ֖ה תַּרְבִּ֣יץ בַּֽצָּהֳרָ֑יִם |
d. Perché non sia come donna velata/errante šallāmâ ʾehyê kᵉʿōṭyâ |
שַׁלָּמָ֤ה אֶֽהְיֶה֙ כְּעֹ֣טְיָ֔ה |
e. dietro ai greggi dei tuoi amici. ʿal ʿeḏrê ḥᵃḇēreḵā: |
עַ֖ל עֶדְרֵ֥י חֲבֵרֶֽיךָ׃ |
Il versetto 1,7 si apre con un imperativo: haggîḏâ («dì»). Si tratta della forma lunga dell’imperativo hiphil del verbo nāgaḏ, «dire o raccontare». Sebbene gli imperativi allungati abbiano spesso una forza enfatica, in questo caso l’uso non indica una particolare differenza semantica. La consonante seguente è raddoppiata con il daghesh forte congiuntivo, per indicare la stretta connessione tra haggîḏâ («dì») e lî («a me»): «Dimmi».
La sposa si rivolge all’amato con parole che traboccano di desiderio e trepidazione. La sua domanda è ripetuta due volte con l’uso dell’avverbio interrogativo ʾêḵâ («dove… dove?»): «Dimmi, o amore dell’anima mia, dove pascoli il gregge, dove lo fai riposare al meriggio?». Questa ripetizione ricalca la domanda che Giuseppe rivolge a un viandante mentre è alla ricerca dei fratelli: «Indicami dove (ʾêḵâ) i miei fratelli si trovano a pascolare» (Gen 37,16).
L’appellativo «amore dell’anima mia» merita particolare attenzione. In ebraico, nep̱eš, «anima», non è qualcosa di vagamente spirituale e sentimentale, ma rappresenta il respiro stesso della vita di una persona, il suo stesso esistere ed essere creatura vivente. Se nep̱eš è in pratica lo stesso “io” della persona, la stessa frase diventa espressione della profonda comunione d’amore che intercorre tra i due: l’uno è quasi il respiro dell’altro, è la sua stessa vita, mentre l’assenza è morte, è distruzione dello stesso “io” dell’amante (cf. Ct 8,6).
La scena si svolge in un’ambientazione pastorale che richiama altri celebri incontri biblici come quello tra Giacobbe e Rachele o tra Mosè e le figlie di Jetro. Il mezzogiorno (ṣohŏrayim, v. 7c) non è solo un’indicazione temporale, ma crea un’atmosfera particolare: il sole al culmine, l’aria che vibra per la calura, il gregge che riposa all’ombra. Da lontano si vedono solo sagome senza vita, profili tremolanti a causa della calura che lievita dal terreno. È il momento dell’incontro tra pastori, è lo spazio dedicato ai racconti, alle discussioni.
In questo scenario pastorale, il motivo del gregge da pascolare non è un semplice sfondo bucolico, ma rivela una profonda sapienza biblica. Nelle Scritture, il pretesto della ricerca degli animali spesso conduce a incontri decisivi che cambiano il destino dei protagonisti. Così Saul, alla ricerca delle asine del padre, incontra Samuele che lo ungerà primo re d’Israele (cf. 1Sam 9-10). L’animale diventa guida misteriosa verso ciò che il cuore davvero cerca, come insegna anche la storia di Balaam: il profeta che si vantava di avere «l’occhio penetrante» (Nm 24,3) non vede l’angelo che la sua asina invece riconosce, in una sottile ironia narrativa che svela come talvolta gli animali possano condurci con maggior sicurezza là dove è in gioco la nostra esistenza in relazione a Dio (cf. Nm 22,1-35). Non è forse questo il caso anche di Tobia, che compie il suo viaggio sicuro sia all’andata che al ritorno, accompagnato dal cane e dall’angelo, con il fedele animale che lo precede nel rientro alla casa paterna (cf. Tb 6-11)?
Ma c’è un’ombra che si allunga su questa ricerca: il timore della aposa di apparire «come una donna velata (ʿōṭyâ) dietro ai greggi dei tuoi amici» (v. 7d.e). L’interpretazione del termine ebraico ʿōṭyâ è complessa, poiché deriva da due radici omofone ma antitetiche.
La prima radice, ʿāṭâ, significa “velare, avvolgere, avviluppare” e descrive la persona che si avvolge nel suo vestito, come lo spettro di Samuele che appare a Saul «avvolto da un mantello» (1Sam 28,14). Nella Bibbia, la donna velata è una rappresentazione ambigua: può essere manifestazione di lutto o di riserbo, ma può anche rappresentare una prostituta, come nel caso di Tamar (Gen 38,14-15: «Tamar si coprì con il velo e se lo avvolse intorno, poi si pose a sedere all’ingresso di Enaim… Giuda la vide e la credette una prostituta»). È noto anche che la fidanzata restava velata sino al giorno delle nozze (Gen 24,65; 29,23.25; cf. Ct 4,1).
La seconda radice ʿāṭâ, semanticamente antitetica rispetto alla sua omofona, indica lo “spogliare”, “ripulire” qualcuno o qualcosa, come nel curioso bozzetto di Ger 43,12 dove si dice che Nabucodonosor «darà alle fiamme i templi degli dèi d’Egitto, li brucerà e porterà gli dèi in esilio; spoglierà il paese d’Egitto così come un pastore ripulisce (ʿāṭâ) dai pidocchi il mantello». Secondo questa interpretazione, la donna chiederebbe al suo amato di farsi subito vivo con la sua presenza per impedire che sia sottoposta alle facili violenze dei pastori, pronti a piombare addosso a una donna che vaga solitaria nel deserto (cf. 5,7).
Una terza interpretazione, accolta dalle antiche versioni di Simmaco, della Peshitta, della Vulgata e del Targum, propone una lettura diversa: attraverso una metatesi (inversione delle lettere), hanno letto ṭʾh (“errare, vagabondare”) invece dell’ebraico del testo masoretico ʿṭh. Questa interpretazione, che immagina la donna come una vagabonda alla ricerca dell’amato, offre un senso molto lineare e immediato, perfettamente compatibile con l’immagine dei pastori e delle pecore. È stata la scelta fatta dalla traduzione italiana della Bibbia CEI: «Perché io non debba vagare dietro le greggi dei tuoi compagni?».
Gli “amici” dell’amato (v. 7e) hanno un ruolo ambiguo. Da un lato, potrebbero ostacolare l’incontro degli amanti, dall’altro, però, sono chiamati a testimoniare e legittimare questo amore. Questa tensione tra intimità e dimensione sociale attraversa tutto il Cantico: l’amore ha bisogno di privacy, ma anche di essere riconosciuto pubblicamente.
Il versetto si conclude con un’immagine potente: la donna che affida le sue parole al vento, sperando che raggiungano l’amato. Si tratta di un soliloquio che esprime tutta la tensione del desiderio e dell’attesa, temi che ritroveremo più volte nel libro. Si delinea così una dimensione che spesso affiorerà nel Cantico e che raggiungerà pagine altissime in Ct 3,1-4 e Ct 5,2-8: l’assenza, la tensione, il vuoto, la lontananza, il timore si insinuano come un soffio gelido nel calore dell’amore.