L’albero della vita perso per sempre? Gen 3,22-24

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Come all’inizio della grande narrazione di Gen 2–3 qui il solo protagonista è Yhwh Elohim; inoltre, sono ripresi alcuni elementi: «ad est», «giardino di Eden», e «albero della vita»1. Ciò conferisce rotondità e completezza al racconto e nello stesso tempo enfatizza la situazione tragica in cui l’essere umano è precipitato a motivo della sua disobbedienza. Nella scena di apertura il giardino venne piantato per l’uomo (2,8), gli fu consentito di mangiare dell’albero della vita (2,9.16.17) e il suo compito era quello di custodirlo e coltivarlo (2,15). Il narratore insiste sulla floridezza e il rigoglio del giardino, come anche sul fatto che era il posto ideale per l’essere umano, dove godeva di una vicinanza senza barriere con Dio. Era in pace con Lui.

In antitesi a questa armoniosa scena iniziale, nei presenti versetti è descritto l’allontanamento della prima coppia umana dal giardino e il lettore apprende con amarezza che non ci sarà più un accesso all’albero della vita, perché ci sono angeli armati a sbarrarne la strada. Sembra che Yhwh Elohim abbia consumato la sua vendetta sull’uomo e la sua donna, ma la scena immediatamente precedente in cui Yhwh Elohim veste le creature umane smentisce una simile lettura (cf. 3,21). In alternativa si potrebbe ipotizzare che le due scene mettono in gioco i due più noti attributi divini: la misericordia (v. 21) e la giustizia (v. 22). C’è solamente questa lettura del testo?

L’ultimo discorso di Yhwh Elohim resta in sospeso

E il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato (o era?) come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre …».

Ad una lettura superficiale il parlare divino presta il fianco alla critica del serpente che aveva dipinto Dio come un essere geloso delle sue prerogative divine (cfr. Post dedicato), le quali ora, dopo la disobbedienza dell’uomo e della donna, vuole togliere all’essere umano cacciandolo dal giardino. Il discorso divino suona beffardo nei confronti della creatura umana: «l’uomo ha provato ad essere dio ma io, Dio, l’ho fregato».

In effetti il verbo «è diventato» traduce la forma qatal del verbo hāyâ, che può però essere resa in italiano anche in un altro modo: come il semplice verbo essere. Ecco il testo con questa piccola modifica:

Ecco, l’uomo era come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male…

In questo caso le parole di Yhwh Elohim sottolineano che l’uomo era veramente destinato a conoscere, ma di una conoscenza che si nutriva del rispetto dell’«altro» e del suo mistero, evitando prese di possesso avide. Purtroppo, sotto l’impulso disordinato della bramosia, la creatura umana ha creduto di impossessarsi della conoscenza – mangiandola simbolicamente. Essa, però, era l’unica qualità capace di istruire gli uomini sulla giusta relazione da tenere con il dono e con l’altro. Ora la bramosia la fa da padrona sull’uomo, mettendo a repentaglio la vita stessa perché dove essa è presente la vita è destinata ad avvizzire e a spegnersi, come hanno ben mostrato le sentenze/constatazioni di Yhwh Elohim (cfr. Gen 3,14-19). C’è quindi la necessità di porre un limite perché la vita non venga mangiata dalla avidità dell’uomo, ecco la sentenza del v. 22b:

E ora nel timore che egli stenda la mano e prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre

Molti commentatori ritengono che la frase sia lasciata volutamente sospesa come indicano i puntini2; in questo modo essa lascia aperta la porta a più di una lettura. Quella proposta dalla Bibbia CEI mette l’accento sulla gelosia che spinge Dio ad allontanare l’uomo dalla vita in pienezza, un senso, come ho detto sopra, plausibile, il limite è dato dall’incapacità di interpretare la sospensione del discorso divino rappresentato dai puntini. Wénin fa una proposta alternativa, rileggendo l’ultima proposizione del v. 22 come un inciso: «E adesso, nel timore che mandi la sua mano e prenda anche dall’albero della vita e mangi – e potrà vivere per sempre». In questo caso l’ultima proposizione (v. 22) non esprimerebbe la conseguenza di aver mangiato dell’albero della vita, bensì lo scopo di Yhwh Elohim quando decide di impedire l’accesso all’albero della vita al terrestre: assicurargli – paradossalmente – l’accesso alla vita3. La soluzione è azzardata, ciononostante ha il pregio di interpretare la sospensione dell’ultimo discorso di Yhwh Elohim.

La custodia contro ogni bramosia

²³ Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. ²⁴ Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita.

Gli ultimi due versetti del capitolo narrano dell’espulsione della prima coppia dal giardino. Sono impiegato due verbi dal narratore: in 2,23 c’è il verbo šālaḥ, «mandare (via)», in 2,24 il verbo gāraš ,«scacciare».

In 2,23 il narratore motiva l’allontanamento con il lavoro dell’ʾădāmâ da cui il terrestre era stato preso e di cui già si è detto. Dopo il secondo verbo di «cacciata», Yhwh Elohim «pone» due figure davanti al giardino. Il verbo ebraico è šākan che più avanti nell’AT verrà impiegato per descrivere il «dimorare» della Gloria di Yhwh come manifestazione della sua presenza (cfr. Es 24,16; 40,35) o dello stesso Yhwh dentro il suo santuario (cfr. 25,8; 29,45.46; Nm 5,3; 35,34; Dt 12,5; 14,23; 16,2.6.11; 26,2), così come lo stazionare della nube che guidava Israele nel deserto (cfr. Nm 9,17.18; 10,12) o l’abitare di Dio dentro il roveto ardente, secondo l’immagine di Es 3,2 (cfr. Dt 33,16). In questo verbo c’è qualcosa dell’agire di Dio in favore del suo popolo Israele.

Gli esseri posti sono i cherubini. Il termine ebraico «cherubino», kᵉruḇîm, richiama i KA-RI-BU assiro-babilonesi, scolpiti su colossali blocchi di pietra. Erano geni raffigurati come leoni o tori alati, con testa umana; venivano posti come custodi all’ingresso dei palazzi e dei templi. I cherubini biblici, solo probabilmente per il nome, derivano da quelli assiro-babilonesi. Infatti, mentre i KA-RI-BU sono divinità, i cherubini biblici sono esseri celesti inferiori a Dio, sue creature e suoi ministri, deputati al servizio e al culto divino.

A fianco dei cherubini c’è un’altra entità, ben riconoscibile perché introdotta dalla congiunzione wᵉʾēt, definita in ebraico come «la fiamma della spada turbinante» (lahaṭ haḥereḇ hammiṯhappeḵeṯ), probabilmente un riferimento al fulmine. L’immagine del fuoco è spesso usata come segno della presenza di Dio (cfr. Es 3,2; 13,21; 19,18; 24,17; Lv 9,24; Nm 9,15.16; Dt 4,11.12.15.33.36; 5,4.22.24.26; 9,10; 10,4). C’è ancora un altro segno che rimanda all’azione di Dio!

L’accumulo di immagini, che rimandano alla presenza di Dio o alla sua Dimora, fanno del giardino di Eden, da cui la prima coppia è allontanata, una sorta di santuario primigenio in cui Dio manifesta la sua presenza e la sua signoria. Se il dato è corretto allora la funzione di questi esseri misteriosi è quella di custodire (lišmōr) la strada dell’albero della vita (Gen 3,24b) e non di sbarrarla. Infatti, il verbo šāmar esprime il «custodire» nel senso di proteggere, di avere una speciale attenzione, piuttosto che di proibire (cfr. Gen 2,15). Di conseguenza l’intenzione di Yhwh Elohim non è quella di vietare l’accesso all’albero della vita, quanto invece di preservarlo sorvegliandolo.

L’albero della vita è sì custodito nel santuario primigenio di Dio, ma non è irraggiungibile, lo è certamente per tutti coloro che vogliono impossessarsene senza limiti, calcando l’atteggiamento bramoso della prima coppia umana (cfr. Gen 3,6). Di contro esso sarà disponibile per chi accetta di incamminarsi sulla via così custodita, rispettandola, prendendo il tempo di inoltrarvisi senza timore. Il prosieguo del racconto biblico paleserà in cosa consisterà questo cammino: la Legge (Dt 30,15-20), la Sapienza (Pr 3,18), Gesù di Nazaret (Gv 14,6; Ap 22,2.14).


  1. La TRIBLE, The rhetoric of sexuality, [Kindle edition] posizione 2675, parla di simmetria asimmetrica tra la scena finale (3,22-24) e quella iniziale (2,4b-9.15-17).
  2. Cfr. WENHAM, Genesis 1-15, 49. Si tratta della figura retorica dell’aposiopesi o “reticenza”. Essa consiste nell’interruzione improvvisa del discorso, per dare l’impressione di non potere o volere continuare, ma lasciando intuire, nello stesso tempo, al lettore la conclusione, che viene taciuta deliberatamente per creare una particolare effetto. In effetti in ebraico ci si attenderebbe un coattivo di tal genere «…cacciamolo o facciamolo uscire».
  3. Cf. WÉNIN, Da Adamo ad Abramo, 88.

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