Le due vie del vangelo di Luca: le beatitudini e i guai: Lc 20-26

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Il racconto lucano delle beatitudini in Lc Lc 6,17.20-26 è meno noto di quello di Matteo, perché nella storia della Chiesa è stato molto usato nella catechesi e nella predicazione, rispetto al brano parallelo di Luca (6,20-26). Nel terzo evangelista, come nel primo, le beatitudini costituiscono la prima parte di un discorso più ampio (Lc 6,20-49), che però Luca colloca in un luogo pianeggiante, ai piedi del monte (6,17), e non sopra di esso come aveva fatto Matteo. Letta sullo sfondo del racconto di Esodo, dove Mosè sale sul monte e poi scende per comunicare al popolo la volontà divina, la scelta di Luca sembra voler mettere maggiormente l’accento sulla comunicazione, cioè sulla possibilità per gli uditori di ascoltare la parola di Dio (invece la scelta di Matteo metteva più l’accento sull’autorità di Gesù).

In quel tempo, ¹⁷Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
²⁰Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. ²¹Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. ²²Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. ²³Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
²⁴Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. ²⁵Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. ²⁶Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti»

L’introduzione (v. 17)

I vv. 17-19 costituiscono l’introduzione non solo ai vv. 20-26, ma a tutto il discorso e presentano, nel v. 17 – l’unico riportato dalla liturgia –, i tre gruppi di ascoltatori: i Dodici (di cui Luca ha narrato la scelta nel brano immediatamente precedente, 6,12-15), i discepoli, e la moltitudine del popolo. Interessante è notare che di quest’ultimo gruppo si specifica la composizione: non sono solo giudei ma anche persone provenienti dalle regioni di Tiro e Sidone (l’attuale Libano del sud). È facile scorgere in questa breve descrizione l’immagine della Chiesa, così come Luca la presenta negli Atti degli Apostoli, dove intorno ai Dodici si raduna una comunità composta di ebrei e pagani. In più, nonostante il v. 20 indichi esplicitamente i discepoli come destinatari delle parole di Gesù, la menzione della folla nel v. 17 fa capire che non si tratta di un insegnamento segreto o riservato, ma di una parola pubblica, che tutti possono accogliere.

Beatitudini e Regno di Dio: vv. 20-23

Nella versione di Luca si hanno solo quattro “beatitudini”, a cui vengono contrapposti quattro “guai”; si nota inoltre la differenza fra le prime tre beatitudini, che hanno una composizione molto semplice, e la quarta decisamente più articolata. Le categorie individuate nei vv. 20b-21 vanno intese non come un elenco esaustivo, ma in senso tipico, in modo analogo a quelle elencate in Is 61,1-2, il brano proclamato da Gesù nella sinagoga di Nazaret; da questo punto di vista le beatitudini indicano concretamente il compimento di quella salvezza annunciata nel brano di Isaia. Restando nell’ambito del terzo vangelo si può anche osservare che la prospettiva di ribaltamento della situazione, presente nei vv. 21 e 25, richiama quanto proclamato nel Magnificat da Maria (cfr. Lc 1,52-53).

Nelle beatitudini è evidente il tono paradossale dell’affermazione principale: dire che chi ‘piange’ è ‘beato’, cioè felice, è palesemente assurdo e contraddittorio, e lo stesso vale per i poveri, gli affamati e i perseguitati. Si noti che, a differenza di Matteo, nella versione di Luca la contrapposizione con le categorie oggetto dei ‘guai’ sottolinea la dimensione concreta e materiale della situazione di miseria e difficoltà in cui si trovano queste persone.

La ragione della beatitudine, dunque, non è relativa alla condizione in cui si vive, ma è spiegata come causa dell’azione di Dio. Ciò è evidente nel v. 20 con la menzione del Regno, ma anche i verbi passivi del v. 21 vanno intesi come espressione dell’intervento divino. Nella concezione della regalità dell’antico oriente e della Bibbia, compito del re era garantire e promuovere la giustizia, che significava intervenire soprattutto in favore delle categorie più deboli, tipicamente rappresentate dal povero, dall’orfano e dalla vedova. Governare secondo giustizia per il re non significava soltanto garantire l’equità e l’imparzialità delle decisioni, ma sostenere la causa dei più deboli, prendere le loro parti. Così nel momento in cui Dio instaura il suo Regno e la sua giustizia, egli si pone dalla parte dei poveri, degli affamati, degli afflitti e dei perseguitati. Per questo essi sono beati: perché il Signore ha deciso di intervenire portando a compimento le sue promesse e sono i primi beneficiari della presenza del Regno di Dio. Il fatto che la beatitudine sia legata all’azione divina, permette meglio di capire il valore della parola per i discepoli: essi sono chiamati non tanto ad essere poveri, afflitti o affamati (perché non è la condizione che rende beati), ma a stare, come Dio, dalla parte dei poveri, degli afflitti o degli affamati.

La differenza fra il presente del v. 20 («vostro è il Regno di Dio») e il futuro del v. 21 («sarete sazianti … riderete»), rimanda alla dimensione misteriosa del compimento della salvezza, che è già presente in mezzo agli uomini e si realizzerà pienamente nel futuro. Nella prospettiva di Luca, quindi, la beatitudine è, da una parte, già realizzata in Gesù e nella comunità cristiana (si vedano le descrizioni della Chiesa in At 2,42-47; 4,32-35, dove la giustizia del Regno si realizza anche concretamente), dall’altra è attesa per i tempi finali (escatologici) della salvezza, che ha sia una dimensione collettiva universale (la fine dei tempi), sia una dimensione individuale (la morte).

Beatitudini e Guai

Il contrasto tra i “guai” e i “beati” si situa anche al livello dell’attesa della salvezza: i ricchi non hanno più niente da cercare, perché hanno già ricevuto tutta la loro consolazione. Infatti, Luca, nel v. 24, usa un termine tecnico del linguaggio commerciale, il verbo apéchō, che potremmo anche rendere «gli è stata pagata per intero», creando così un contrasto con la «ricompensa nel cielo» di cui parla al v. 23. Come emerge anche da altri passi del vangelo, la ricchezza (intesa in senso materiale) rappresenta per Luca la situazione alternativa alla fede, perché implica la negazione della priorità della parola di Dio e della ricerca di lui nella propria vita; potremmo dire che la ricchezza è il paradigma dell’idolatria. Interpretando le beatitudini alla luce dei “guai”, quindi, Luca vuole mettere l’accento non soltanto sull’azione di Dio che ristabilisce la sua giustizia, intervenendo in favore dei miseri, ma anche segnalare una serie di scelte e di comportamenti che escludono dalla prospettiva del Regno.

Beatitudine e persecuzione

In tale linea si capisce l’associazione delle prime tre beatitudini con la quarta, che è rivolta esplicitamente ai discepoli che soffrono la persecuzione a causa del Figlio dell’Uomo. Scegliendo la sequela di Gesù i suoi discepoli soffrono come poveri, afflitti e affamati perché, come il maestro, si oppongono alla logica del mondo per cercare la giustizia tipica del Regno di Dio. L’espressione «in quel giorno», del v. 23, va intesa in riferimento al tempo della persecuzione: proprio quello deve essere il momento della gioia e dell’esultanza. L’evangelista impiega termini che non suggeriscono solo un sentimento puramente interiore, ma anche le manifestazioni esteriori della gioia. Infatti, il verbo tradotto con «esultare», greco skirtáō, al v. 23 è lo stesso usato in Lc 1,41.44 per il «sussultare» di gioia del bambino nel grembo di Elisabetta. C’è quindi un rimandano alla totalità dell’esistenza cristiana. La paradossalità dell’affermazione si giustifica, come mostra l’analogia con i profeti, con l’idea che la persecuzione manifesti, a chi la subisce, la sua vicinanza a Dio e quindi, per i cristiani, la loro stretta comunione con il Figlio. In più il legame semantico fra il «ridere» v. 21 e l’«esultare» del v. 23 conferma quanto detto a proposito della duplice dimensione, presente e futura, della salvezza, perché la gioia non è solo un’esperienza rimandata al futuro del compimento (come potrebbe sembrare leggendo solo il v. 21), ma è anche, per i lettori cristiani del vangelo, un’esperienza presente nella Chiesa perseguitata.

Infine un ultime dimensione legata alla gioia è dettata dal passaggio dall’indicativo del v. 21 all’imperativo del v. 23. La gioia è innanzitutto un dono divino, che deriva dalla presenza del Signore e dal dispiegarsi della sua giustizia (indicativo), ciò però non toglie, anzi urge, che essa debba essere assunta dal cristiano/a come impegno di vita personale (imperativo).

La quarta beatitudine diventa così la chiave di lettura del brano: senza escludere la dimensione più generale a cui i vocaboli «poveri», «affamati», «piangenti» rimandano, le pericope evangelica si invera nei discepoli e nei lettori cristiani, che vi vedono, da una parte, rispecchiata la loro condizione esistenziale di difficoltà e persecuzione (oggi non è facile né scontato essere cristiani), dall’altra, l’appello a mantenere intatta la fiducia e la speranza, nella certezza di essere partecipi della salvezza del Regno, nonché la richiesta di vivere nella giustizia fondata in Dio e non sulla logica delle ricchezze, della sazietà e della gioia mondana.

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