Il primo discorso del serpente alla donna di Gen 3,1b ha più di un elemento in comune con quello pronunciato dal terrestre in Gen 2,23, rivolto solo apparentemente alla donna e dal tono solo apparentemente amoroso1. Proviamo a metterli a confronto
Una stessa logica
Con le sue parole il serpente occulta totalmente il dono di Dio facendolo sparire dietro la mancanza di mangiare di un unico albero.
Le parole del terrestre davanti alla creazione della donna la colgono solo come ciò che gli è stato tolto, senza riconoscere in lei l’opera e il dono di Yhwh Elohim che lo toglie dalla solitudine e lo mette in relazione.
Nei due discorsi lavora un’unica logica: il dono fatto da Yhwh Elohim viene nascosto e al suo posto è fatta risaltare la mancanza (mancanza di mangiare, mancanza di un lato).
Dire per sovvertire
Altra corrispondenza è che il serpente e il terrestre dicono una cosa corretta ma poi fanno il contrario: dando il nome alla donna, il terrestre ne riconosce a parole l’alterità ma nello stesso tempo ne prende possesso nominandola, come aveva preso possesso sugli animali nominandoli; il serpente ricordando l’ordine di Yhwh Elohim, dice materialmente la verità, mentre in realtà, citandolo capovolto, lo stravolge e lo scredita.
Processo di occultamento
Infine il serpente con quell’impercettibile slittamento verso la seconda persona plurale occulta la differenza tra uomo (ʾîš) e donna (ʾiššâ) e fa di loro un unico «voi» frustrato dalla proibizione divina. È anche quello che fa, coscientemente o incoscientemente, l’uomo nel suo grido entusiasta: cancella la separazione operata di Yhwh Elohim, come anche la mancanza che ne risulta; ristabilisce, quindi, tra «loro due» un’unione fusionale che solo superficialmente dà l’illusione di una compiutezza ritrovata, in realtà però riporta al terrestre (ʾadām) indistinto marchiato dalla solitudine2. Interessante notate che più avanti il narratore presenterà la donna e il «suo uomo» che mangeranno da soli il frutto senza alcuna convivialità.
Il serpente non è un animale estraneo
Se le cose stanno così, questo significa che il serpente non entra da chissà quale porta segreta nel racconto, ci sono tutte le premesse per dire che esso era già lì, lì quando il terrestre (ʾadām) lanciava il suo grido falso d’amore. Infatti, il narratore introduce il serpente con una proposizione che in ebraico esprimere anche anteriorità. La si potrebbe rendere così in italiano: «Ora il serpente era…» . C’è quindi anteriorità alla catena narrativa precedente: alle parole del terrestre (ʾadām) e alla nudità dei due, il terrestre (ʾadām) e la sua donna (wᵉʾištô).
Che cosa rappresenta questo strano animale parlante nelle cui parole c’è un’eco di quelle pronunciate dal terrestre (ʾadām) indifferenziato?
Il serpente si inscrive in quello spazio reso libero dalla mancanza (il fianco preso e richiuso) e dal limite (quello di non poter mangiare dell’albero al centro del giardino, ma solo quello). È proprio in questo spazio che si gioca la relazione di fiducia con l’«altro», che esso si chiami Yhwh Elohim o donna non importa .