All’apertura del capitolo terzo viene introdotto un nuovo personaggio: si tratta “del” serpente il quale parla:
«Ora il serpente era il più astuto di tutti gli animali salvatici…» (3,1a).
וְהַנָּחָשׁ֙ הָיָ֣ה עָר֔וּם מִכֹּל֙ חַיַּ֣ת הַשָּׂדֶ֔ה אֲשֶׁ֥ר עָשָׂ֖ה יְהוָ֣ה אֱלֹהִ֑ים
La sua comparsa è un fulmine a ciel sereno1: Chi è? Da dove viene? Perché c’è? Non c’è nulla di meglio di un po’ di mistero per accrescere la curiosità attorno a un personaggio2. Se si fa attenzione al testo ebraico si nota che il «serpente» occupa la prima posizione nella frase, venendo qualificato con un articolo determinativo; quindi nella mente del narratore, come anche in quella dei suoi lettori impliciti, è un personaggio conosciuto, o facilmente riconoscibile. Ma fin qui al lettore nei capitoli precedenti non è stato detto nulla, almeno apertamente, su di esso.
Nelle traduzioni, compresa quella italiana, tra il secondo e il terzo capitolo si registra una separazione ben evidenziata dalla impaginazione editoriale: c’è il titolo «Capitolo III», alle volte si passa ad una nuova pagina, altre si aggiunge un titolo specifico, ad esempio quello impiegato dalla Bibbia di Gerusalemme è «Il racconto del paradiso»3. Nel testo ebraico invece i due capitolo sono uno di seguito all’altro senza interruzioni.
Strana insistenza sulla nudità
Faccio questo premessa perché il passaggio dal secondo al terzo capitolo registra una continuità linguistica e semantica4. È sufficiente mettere di seguito i vv. 2,25 e 3,1 per accorgersene:
2,25: Loro due erano nudi (ʿărûmmîm), l’umano (hāʾādām) e la sua donna, e non si face-vano vergogna.
3,1: Il serpente era il più astuto di (ʿarûm mi-) tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto.
Chiaramente le due espressioni, «il più astuto di» (ʿarûm mi-) ed «erano nudi (ʿărûmmîm)», sono molto simili e la loro differenza è minima. Ciò è ancora più evidente se si tiene presente che il termine ebraico per “nudo” è ʿērôm (lo si ritroverà in Gen 3,10.11) e al plurale fa ʿêrummîm (cf. ricorre in 3,7); quindi il vocabolo ʿărûmmîm di Gen 2,25a per indicare la “nudità” è volutamente uno “svarione grammaticale” (forse?) per creare una connessione tra i due versetti5. Di per sé, l’aggettivo usato per il serpente indica «finezza», «astuzia», «scaltrezza»6. Ma i lemmi sono troppo simili per essere frutto di una scelta casuale, il gioco di parole spinge per una comprensione di altro livello. Il serpente, che non ha né piume né peli, appare francamente il più «nudo» (ʿarôm) tra gli animali creati da Yhwh Elohim. Ora l’effetto della nudità è di esibire la differenza e quindi il limite e la mancanza che esso rappresenta. Sul limite scaltramente giocherà il serpente con la donna.
Nonostante la sua astuzia, il narratore si preoccupa di precisare che il serpente è una «bestia del campo» (ḥayyat haśśādeh) e che è stata fatta da Yhwh Elohim (ʾăšer ʿāśâ Yhwh ʾĔlōhim). Lo stato costrutto ḥayyat haśśādeh era già stato impiegato precedentemente in Gen 2,19.20 per indicare gli animali selvatici plasmati da Yhwh Elohim e quindi pericolosi. Il serpente pur essendo astuto non è una divinità ma ha una certa pericolosità7.
Gen 3,1b: Le parole del serpente alla donna
Il narratore ha messo nell’avviso il lettore che questo nuovo personaggio è astuto – contrariamente alla donna che non sa nulla. Di conseguente le sue parole meritano tutta l’attenzione del lettore. Fin da quando apre bocca, il serpente fa suo il comando di Yhwh Elohim dato al terrestre (cf. Gen 2,16-17):
… e disse: «Veramente, sì, ha detto Elohim: “Non mangerete da ogni albero del giardino»”(3,1b).
וַיֹּ֙אמֶר֙ אֶל־הָ֣אִשָּׁ֔ה אַ֚ף כִּֽי־אָמַ֣ר אֱלֹהִ֔ים לֹ֣א תֹֽאכְל֔וּ מִכֹּ֖ל עֵ֥ץ הַגָּֽן׃
Il serpente ripete le parole di Elohim, ma il suo esordio, difficile da tradurre, instilla il dubbio nelle parole divine, come se non sapesse esattamente che cosa ha detto Elohim e ne chiedesse conferma alla donna.
Facendo le pulci alle parole del serpete ci si accorge che non solo riprende le parole di Elohim ma le trasforma, non in modo lapalissiano, bensì impercettibile ma sostanziale8. Il serpente fa un’affermazione corretta quando dice che gli umani non possono mangiare «da ogni albero del giardino», perché uno di questi è stato loro proibito (cf. Gen 2,16-17); la sua formulazione però la fa risuonare in tutt’altro modo. Da un confronto dei testi ci si accorge che le parole del comando divino sono accorciate e invertite:
2,16b-17a: Yhwh Elohim
16b. Da ogni albero del giardino mangiare mangerai, 17a. ma dell’albero del conoscere bene e male NON NE MANGERAI… |
3,1b: Elohim nelle parole del serpente
NON MANGERETE da ogni albero del giardino |
L’operazione è astuta perché il serpente fa pesare il divieto, «non mangerai» (2,17a), sull’espressione «da ogni albero del giardino», mentre Yhwh Elohim aveva affermato categoricamente la possibilità di mangiare («mangiare mangerai», 2,16b), riservando la proibizione esclusivamente a un solo albero.
In sostanza il serpente fa dire a Elohim il contrario di quello che aveva detto all’inizio del suo discorso. La comprensione immediata delle parole attribuite dal serpente a Elohim, così come anche la donna le recepisce, è: «Non mangerete di nessun albero del giardino», un senso perfettamente possibile in ebraico. La traduzione della CEI rende il tutto con una interrogativa: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?».
Così, anche se quel che dice è giusto, il serpente cita il comando divino in modo tale che la donna lo intenda un significato del tutto diverso. Egli, pur dicendo il vero, insinua il falso e gioca, con la sua lingua biforcuta, sulla facoltà che il linguaggio ha di creare ambiguità. Di conseguenza il serpente getta il sospetto su chi parla in questo modo. Sono tre gli indizi che lo provano.
1. Per prima cosa il serpente storpia volutamente il nome divino. In Gen 2,16-17 il narratore aveva raccontato che era stato Yhwh Elohim a dare il comando al terrestre, il serpente invece lo attribuisce a Elohim. Quest’ultimo è il nome generico per la divinità e non il nome proprio come in Gen 2. Ciò contribuisce a spersonalizzare la relazione che è sottesa al comando.
2. Il serpente riporta solo la parte negativa dell’ordine di Yhwh Elohim, quella che pone il limite («non mangerete»). Non fa quindi nessuna allusione al dono iniziale di «ogni albero del giardino». In questo modo, nelle parole del serpente attribuite a Elohim, l’albero proibito occupa tutto il posto e diventa esattamente «l’albero che nasconde la foresta di tutti quelli che sono stati donati»9. La conseguenza è rendere il comandamento incomprensibile, perché esso traeva senso dal dono di tutti gli altri alberi dati come cibo. Ora senza il dono la parola divina è solo una legge che proibisce di mangiare e di godere, cioè di vivere.
3. Il terzo indizio sta nel fatto che il serpente introduce nell’ordine divino un impercettibile slittamento. In 2,16-17, Yhwh Elohim si era rivolto al terrestre qualificandolo come un «tu»:
Tu potrai… ma dell’albero della conoscenza del bene e del male (tu) non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire.
Nel mettere un limite Yhwh Elohim struttura il desiderio del terrestre e lo struttura come un “tu” che è separato da un’altro con il quale potrà entrare in relazione, dando vita allo scambio che ha la sua ragione d’essere nella fiducia reciproca10.
Nelle sue parole il serpente formula il divieto alla seconda persona plurale: «(Voi) non mangerete…». A prima vista l’uso del “voi” è giustificato dal fatto che nello spazio-tempo narrativo che va dal comando divino alle parole del serpente, il terrestre (ʾadām) nel frattempo è diventato ʾîš e ʾiššâ, «uomo» e «donna». La sostanza però non cambia perché il serpente non presenta alla ʾiššâ un limite da assumere per lasciare lo spazio all’uomo/maschio (ʾîš), tanto che il narratore, più avanti, ci dirà che lei lo ha fatto “suo” («ne diede al suo uomo»; cf. Gen 3,6b). Il serpente astutamente sposta il limite frapponendolo tra Elohim e il “voi” e così oppone Dio agli uomini. Se in Gen 2,16-17 la mancanza era un’opportunità di apertura all’altro, un appello all’altro, le parole del serpente la trasformano in una frustrazione arbitraria imposta da Elohim nemico del “voi”.
Tutto questo viene insinuato e mai asserito esplicitamente. Le conseguenze nefaste si percepiranno solo dopo. Un Dio così non merita certo di essere chiamato Yhwh «colui che fa essere»11, per cui il serpente lo appella con il termine generico e impersonale di Elohim «divinità». Al contrario il narratore impiegherà sempre il nome personale Elohim Yhwh nei capitoli due e tre.
Concludendo, il serpente con le sue parole astute e sibilline mette in atto un processo di appannamento sia del limite che di chi ha messo il limite, cioè Yhwh Dio. È un processo che abbiamo già incontrato nelle parole del terrestre. Diventa importante ora mettere a confronto le due scene.
- Dal punto di vista della tecnica narrativa non c’è nessuna expositio, cioè il narratore non dà nessuna informazione che lo inquadri. ↩
- Dal punto di vista della sintassi testuale, il testo presenta una frattura sintattica nella transizione dal secondo al terzo capitolo: si passa dal wayyiqtol narrativo di 2,25a al costrutto verbale x-qatal di 3,1a che, oltre a marcare lo sfondo della narrazione, può iniziare una nuova narrazione (cf. A. NICCACCI, Sintassi del verbo ebraico nella prosa biblica classica (SBF Analecta 23), Jerusalem 1986; A. NICCACCI, Lettura sintattica della prosa ebraico-biblica. Principi e applicazioni (SBF Analecta 31), Jerusalem 1991. Sulla sua applicazione nell’analisi narra-tiva cf. R. TADIELLO, Sintassi testuale e narratologia, in Bibbia e Oriente 217 (2003), 129-154; R. TADIELLO, Giona tra testo e racconto. Sintassi testuale e narratologia a confronto in un testo biblico – Pars Dissertationis (Thesis ad Doctoratum in Theologia cum specializatione biblica 397), Jerusalem 2003); ma questo non è il nostro caso perché tra il secondo capitolo e il terzo c’è continuità narrativa dettata dal fatto che, tranne il serpente, i personaggi non cambiano (Yhwh Elohim, l’umano, la donna), la compositio loci è la medesima – il giardino – e si ritrovano gli stessi alberi. Quindi la “frattura” sintattica non è “notevole”, marca, invece, una transizione dal primo piano della narrazione allo sfondo che segna l’inizio di una nuova fase narrativa o, meglio, di un nuovo episodio dove entra in scena questo personaggio misterioso. ↩
- Cf. La Bibbia di Gerusalemme, 27. ↩
- P. TRIBLE, God and the rhetoric of sexuality (Overtures to Biblical Theology), Philadelphia 1989 [Kindle edition], 2128-2295, individua un’unica scena che va da Gen 2,25 a Gen 3,7. ↩
- Cf. E. VAN WOLDE, Racconti dell’inizio. Genesi 1-11 e altri racconti di creazione (Biblioteca biblica 24), Brescia 1999, 50; J. BLENKINSOPP, Creazione de-creazione, nuova creazione. Introduzione e commento a Genesi 1-11 (Epifania della Parola 5), Bologna 2013, 106; G. CASTELLO, Genesi 1-11. Introduzione e commento alla storia biblica delle origini (Scripturae 3), Trapani 2013, 119. ↩
- Il termine ebraico fa riferimento a un contesto sapienziale. Cf. L. ALONSO SCHÖKEL, Motivos sapienciales y de alianza en Gn 2-3», in Biblica 43 (1962), 295-316; G.E. MENDENHALL, The Shady Side of Wisdom: The Date and Purpose of Genesis 3, in H.N. Bream (ed.), A Light Unto My Path: Old Testament Studies in Honor of Jacob M. Myers, Philadelphia 1974, 319-334. ↩
- Sulla scelta di questo animale e sulla simbologia ad esso collegata mi riservo di scrivere un post. ↩
- WESTERMANN, Genesis 1-11, 239; G.J. WENHAM, Genesis 1-15 (WBC 1), Nashville 1987, 73; HAMILTON, Genesis 1–17 [Kindle edition], pos. 3439. ↩
- WÉNIN, Da Adamo ad Abramo, 69. ↩
- Interessanti le pagine di M. BALMARY, La divina origine. Dio non ha creato l’uomo (Epifania della parola 9), Bologna 2006, 63-66, dove la nascita del soggetto TU è legata al comando divino. ↩
- Il termine ebraico deriva dal verbo essere nella coniugazione causativa hifil. Cf. DTAT, I, coll. 608-609. ↩