HomeCommento a GenesiL’inchiesta. Gen 3,8-13

L’inchiesta. Gen 3,8-13

L’interpretazione tradizionale e moderna legge in questi versetti una sorta di «inchiesta» condotta da Yhwh Elohim. I personaggi compaiono in ordine inverso rispetto alla scena della trasgressione: uomo, donna e serpente1. Le stesse parole dell’uomo e della donna palesano il loro peccato, ciononostante la scena conserva una certa mitezza. A questa scena succederà quella del giudizio che riprenderà l’ordine corretto dell’entrata dei personaggio coinvolti nella trasgressione: serpente, donna, uomo. Ecco il testo:

8Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

La percezione negativa di Dio: v. 8

Tutto inizia con i trasgressori che sentono il rumore di Yhwh Elohim che passeggia nel giardino (v. 8a) e subito il narratore registra la loro reazione: si nascondono. Da notare che subito che l’arrivo di Yhwh Elohim nel giardino è introdotto a partire dalla prospettiva degli umani. Il movimento di Yhwh Elohim è descritto con il participio hitpael miṯhalleḵ del verbo hālaḵ che significa «andare» o «camminare». Di conseguenza il termine generico «rumore/voce», qôl, non si riferisce alla voce di Yhwh Elohim ma al rumore dei suoi passi. Il narratore non sta presentando affatto l’essere divino come un giudice, anzi egli, approfittando della brezze del giorno, passeggia familiarmente nel giardino la cui custodia ha affidato al terrestre. Sembra dunque venire da amico, in piena sintonia con l’immagine positiva tracciata dal racconto di Gen 2 fino al suo sfumare dalla scena al v. 22.

La percezione negativa della presenza di Dio quindi non è da addebitare al narratore bensì ai personaggi presenti sulla scena, il terrestre e la sua donna i quali al sentire il rumore di Yhwh Elohim – forse dei suoi passi – hanno l’inconsulta reazione di nascondersi perché si sentono minacciati (3,8b). In effetti sarà lo stesso terrestre a confessarlo dopo qualche versetto (cf. v. 10). Lo coscienza della loro nudità li mette davanti al dato di fatto di non essere diventati come l’Elohim superiore ventilato dalle parole del serpente. Dal momento che hanno creduto a quest’ultimo, ora vedono in Yhwh Elohim un avversario, la cui minaccia di morte aleggia su di loro perché hanno trasgredito il suo ordine (cfr. 2,17), senza che, peraltro, si realizzi la promessa del serpente. In queste condizioni, è nella logica del racconto che tentino di sottrarsi allo sguardo divino nascondendosi.

Dove sei? v. 9

Al v. 9 Yhwh Elohim non trovando chi si aspettava di trovare nel giardino, cioè il terrestre e la sua donna, lo chiama: «Dove sei?». Nella logica del racconto la domanda è naturale e posta al momento giusto e con forte realismo2. Lo è certo di meno la risposta. Infatti invece di segnalare dove si trova o andare incontro a chi lo sta cercando, il terrestre reagisce con delle parole che sono la risposta a un’altra domanda sottesa e che Yhwh Elohim non ha posto: «Perché ti nascondi?»; risposta: «La tua voce ho udito e ho avuto paura» (v. 10a). Notiamo nelle parole del terrestre che il termine qôl, «rumore/voce», occupa la prima posizione, quella in cui cade l’enfasi del locutore. Egli reagisce come se percepisse nella domanda di Dio un significato inquisitorio e un velato riferimento a un’altra domanda, quella vera, quella a cui effettivamente risponde. È come se il terrestre vedesse in Yhwh Elohim quel Dio che, come ha detto il serpente, conosce tutto e che, quindi, finge di porre una domanda ingenua, quando invece viene per incastrarlo. Yhwh Elohim è scaduto agli occhi del terrestre da amico benevolo ad avversario minaccioso come aveva detto il serpente.

La risposta umana innesca altri due interrogativi da parte di Yhwh Elohim: «Chi ti ha raccontato…? Hai forse mangiato…?» (v. 11). È bene notare che Dio non parla di disobbedienza, di ordine trasgredito o di colpa: non moralizza, non giudica e ancor meno condanna. Se dalla prospettiva del personaggio terrestre il lettore può cogliere un atteggiamento inquisitorio, egli, dal suo punto di vista elevato, sa che l’ordine dato a proposito degli alberi era il monito di un amico preoccupato di mettere in guardia il terrestre di fronte a un tranello mortale. Perché allora qui le domande non potrebbero essere state fatte con lo stesso spirito? Perché dovremmo attribuire a Yhwh Elohim un’intenzione inquisitoria, come il terrestre fa? E se queste esprimessero una preoccupazione sacrosanta dato che, come si è visto Yhwh Elohim non sa tutto (contrariamente a quel che pensa il terrestre, manipolato dal serpente)? Dio con queste domande si preoccupa di una faccenda nella quale è in gioco la vita degli uomini.

Un tragico scaricabarile vv. 12-13

Passando alla replica del terrestre (v. 12), a quanto Dio chiede egli non risponde, non racconta (nāgad all’hiphil) quanto è successo3; è come se pensasse che Yhwh Elohom sappia già tutto, ma è lui che lo presuppone. Di conseguenza evoca solo una parte dei fatti, soprattutto quella che lo giustifica. Invece di confessare subito: «ho mangiato!»; prima accusa la donna di avergli passato il frutto, cosa che è vera, e poi confessa. Nell’accusare la donna però tira in ballo Dio stesso, accusandolo, con mezzi termini, di essere all’origine di ciò che lo ha portato a peccare: «Quanto alla donna che mi hai data, è stata lei a darmi…» (v. 12a.b)4. Il dono della donna che aveva liberato il terrestre dalla solitudine, si è tramutato in regalo avvelenato. In realtà, parlando in questo modo, il terrestre mostra di aver fatto propria la logica del serpente, che giocava su mezze verità, mentre, sempre come il serpente, sospetta Dio di malevolenza. In verità, è proprio la logica dell’animale astuto a guidare adesso il suo sguardo e le sue reazioni.

Yhwh Elohim si rivolge alla donna, tirata in ballo dal terrestre (v. 13) e soltanto qui il suo linguaggio ricalca quello del giudice, perché ricorre a una formula che, nel contesto di un processo, serviva al giudice o alla parte lesa per interpellare il colpevole e invitarlo a confessare il delitto, mentre in altri testi ha un senso più generale di rimprovero: «Che cosa hai fatto? (Mah-zōʾt ʿāśît5. È significativo il fatto che la prima domanda in cui Dio ricorre al vocabolario del giudice porti la donna a fare verità. Sentendosi imputata, infatti, la donna reagisce con poche parole: «È il serpente che mi ha ingannata e ho mangiato» (3,13). Certo, come il terrestre, confessa la sua colpa solo dopo aver scaricato la responsabilità sul serpente, ma a differenza del terrestre non aderisce alla logica del serpente, gettando la colpa anche su Dio con mezze verità. Invece, incrimina il serpente dicendo la verità con tre sole parole (nel testo ebraico): hannāḥāš hiššîʾanî wāʾōkēl6. Dopo aver creduto alla sua menzogna, la donna lo smaschera. Questo cambia radicalmente le cose perché, se nel dialogo tra il serpente e la donna era parola contro parola (quella di Dio e quella del serpente), la dichiarazione della donna che il serpente è menzoniero ha come conseguenza che Yhwh Elohim ha detto il vero.

Ristabilita la verità delle cose Yhwh Elohim procede con il giudizio.


  1. L’ordine originale ritornerà al v. 14 con serpente, donna uomo.
  2. Alcuni esegeti leggono nel «allora Yhwh Elohim chiamò l’uomo» (3,9a) un brusco intervento divino che suggerisce come il Giudice del mondo stia chiamando l’uomo per chiedergli conto del suo operato; la domanda quindi, come osserva Cassuto, è retorica. Yhwh Elohim sa benissimo dov’è l’uomo tanto che poi prosegue: «e disse a lui».
  3. Yhwh Elohim aveva chiesto: «Chi ti ha raccontato (higiyd) che eri nudo»; il terrestre però non racconta.
  4. La costruzione grammaticale ebraica è particolare perché l’espressione «La donna che mi hai data» è un casus pendens la cui funzione è quello di evidenziare un elemento della proposizione.
  5. Con senso giudiziario cf. Gs 7,19; Gdc 2,2; 1 Sam 13,11; 14,34. Con senso generale di rimprovero cf. Gen 12,18; 26,10; 29,25; 31,26.
  6. È da notare l’allitterazione: «E disse la donna (hāʾiššā): “Il serpente mi ha ingannata (hiššîʾanî)”». È possibile vedervi il segno che il serpente altri non è che un disordine nella donna? Non è forse questa la bramosia: un disordine interiore?

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