Il brano evangelico di questa prima domenica di Avvento (Lc 21,25-28.34-36) è il risultato dell’accostamento di due frammenti tratti dal secondo discorso escatologico (o anche “apocalittico”) di Luca.
Il primo frammento si concentra sui segni premonitori della venuta del Figlio dell’uomo, venuta il cui annunzio è il centro di gravità di tutto il capitolo.
Se nella parte precedente del discorso le parole di Gesù, nella versione lucana, anticipano esperienze vissute dalle comunità cristiane delle origini – ad esempio, momenti di persecuzione, nonché gli avvenimenti che hanno accompagnato la presa di Gerusalemme e la distruzione del tempio – in questa parte il discorso si rivolge più decisamente verso l’éschaton, perché il senso di ogni cosa si manifesta soltanto nel suo fine e nella sua fine. Si rivela così il significato di un travaglio, che segna la storia umana, la quale non sfocia nel nulla, ma nell’incontro con il Figlio dell’uomo.
II Figlio dell’uomo
Ancora prima che sui segni che accompagnano la venuta del Figlio dell’uomo, è bene sostare sul significato di tale figura, ricordando che nei vangeli è sempre un’autodesignazione di Gesù. C’è la possibilità di rintracciare un percorso, uno sviluppo del significato, seguendo il suo uso nel Vangelo di Luca.
Dapprima il titolo sembra molto vicino a quello della figura del Figlio d’uomo nel libro di Daniele, che instaura una realtà veramente rispettosa dell’umano, con un potere che non si arroga autonomamente, ma che gli viene da Dio. Tale figura presenta quindi un tratto di prossimità con l’umanità (letteralmente nel testo aramaico di Dn 7,13 non si tratta di un suo venire sulle nubi, bensì con le nubi, espressione più coerente con una sua provenienza dalla terra), e d’altra parte una sua vicinanza all’Antico di giorni, fino ad essere quasi un suo ‘doppio’.
Gesù associa alla figura del Figlio dell’uomo quella della sua autorità, del suo potere, come quello di rimettere i peccati o di disporre del sabato (cfr. Lc 5,24; 6,5). Successivamente, nelle predizioni della passione, il Figlio dell’uomo è colui che viene umiliato e patisce fino alla morte a causa e in favore dei figli degli uomini, ma Dio lo risusciterà da morte. Qui il Figlio dell’uomo è colui che tornerà con potenza e gloria grande, cioè come il senso ultimo della storia, perché a lui è data da Dio la signoria universale e la capacità di vittoria totale sul male.
La pericope odierna, allora, invita a contemplare la figura escatologica del Figlio dell’uomo, come il termine ultimo della speranza del credente, senza però dimenticare la modalità con cui tutto ciò si realizza, e cioè il mistero dell’umiliazione e passione del Figliò dell’uomo.
I segni del giorno del Figlio dell’uomo
Possiamo adesso sostare sui segni con cui si annuncia il giorno del Figlio dell’uomo. Non si tratta di manifestazioni che permettono di calcolare in anticipo il momento della venuta del Figlio dell’uomo; infatti sono segni che accompagnano inesorabilmente la storia di ogni tempo, quali sconvolgimenti della natura, catastrofi, eventi dolorosi.
Luca dipinge un quadro fosco, con un’umanità atterrita, schiacciata dalla paura. Ebbene, la venuta del Figlio dell’uomo rovescia la situazione, liberando dalla paura tutti coloro che lo riconosceranno come Re della storia, e ne accetteranno la potenza e la gloria. Il messaggio di questa prima parte della pericope evangelica sta proprio in questo contrasto tra un mondo schiavo del suo terrore e un’umanità liberata da Colui che instaura un mondo realmente umano: il Figlio dell’uomo.
Con questa speranza il credente può affrontare le prove in modo diverso, e attraversare le situazioni difficili senza lasciarsi schiacciare, come suggerisce la splendida immagine del levarsi e dell’alzare il capo. La speranza permetterà di vivere le cose “penultime” con passione, con libertà, proprio in nome delle cose “ultime”, e cioè del ritorno del Signore:
Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina (Lc 21,28).
Attenzione e vigilanza nella preghiera
Il secondo frammento, che costituisce il brano liturgico, è tratto da Lc 21,34-36. Il contesto è quello del giudizio escatologico, sulla cui imminenza si insiste per ricordare al credente che non può trascorrere il suo tempo aspettando tranquillamente, distraendosi in mille occupazioni e dissipazioni e, soprattutto, rinviando continuamente la propria conversione.
Pensare che il giudizio è in un futuro lontano distoglie da una verità radicale: è il presente ad essere giudicato! Così, se non è possibile calcolare il momento della venuta del Figlio dell’uomo, ogni istante può essere decisivo, anzi è decisivo, come illustra plasticamente l’immagine della rete dell’uccellatore o del pescatore, che si abbatte improvvisamente sulla preda.
Il valore del tempo presente, in ordine all’eterno, è realtà più sicura della stessa esistenza del cielo e della terra. Donde due imperativi, in grande rilievo in questa sezione della pericope: «State attenti» e «vegliate pregando!» (così letteralmente, e non con due imperativi di seguito [vigilate e pregate], quasi il vigilare fosse altro dal pregare).
Il primo verbo chiede di fare attenzione, cioè di applicarsi con diligenza, onde discernere e lottare contro ciò che appesantisce il cuore e spegne la speranza. Luca illustra analiticamente quanto rende greve il cuore. Il primo termine, reso dal testo liturgico con «dissipazioni», è in greco kraipàlē, e cioè quegli eccessi nel bere che possono essere estesi a tutte le forme di esasperazione nel consumo di beni, nella ricerca di stati di vertigine, di coscienza alterata. Il cristiano deve rimanere assolutamente lucido, per discernere e per attendere.
A ribadire il pericolo di questa vita dissipata, ecco il secondo termine, fondamentalmente sinonimico, che indica l’ubriachezza (méthē). Allo sregolato uso dei beni, Luca affianca anche un’altra realtà che grava il cuore, e cioè gli affanni (mérimnai). Questo termine, nella forma verbale o sostantivale, appare già prima nel terzo vangelo. Ricordiamo qui l’invito di Gesù a conservare la fiducia nella cura provvidente di Dio, senza lasciarsi turbare dalla ricerca di sicurezza materiale della vita (cfr. Lc 12,22-31). Si tratta di preoccupazioni mondane, che possono soffocare la parola della predicazione (Lc 8,14) e prendere la forma di un’agitazione quasi incontrollabile, così come lo è l’affaccendarsi di Marta, che si sta dimenticando della sola cosa necessaria (cfr. Lc 10,38-42).
In definitiva, il credente deve passare indenne tra “Scilla e Cariddi”, dove il primo è la vita dissoluta e il secondo è la vita affannata e preoccupata, perché priva di fiducia in Dio. Ecco perché è necessaria un’estrema cautela, un incessante discernimento su se stessi, come esprime bene quel proséchete, termine cui Luca ricorre varie volte per esortare ad un atteggiamento di reale attenzione a ciò che ispira i propri comportamenti, e di controllo su ciò che c’è veramente nel proprio cuore (cfr., ad esempio, Lc 12,1;17,3; At 5,35; 20,28).
Vegliare pregando
Ma questo invito a discernere in se stessi potrebbe cadere in un’esortazione vana, se non si concretizzasse in un’esortazione ancora più precisa, e cioè quella di vegliare pregando. L’imperativo impiegato è il verbo agrypnéō, che letteralmente significa «dormire nei campi». Si tratta di quel sonno leggero, pronto ad interrompersi al minimo rumore, quando vi è un segnale di pericolo, il sonno che è richiesto ai pastori quando custodiscono il gregge. Per rifarci ad un’esperienza più consueta, si potrebbe paragonare al riposo dei genitori quando un figlioletto è ammalato: sembrano dormire, ma in realtà sono prontissimi a risvegliarsi al suo benché minimo sospiro. Per vegliare così, senza cadere nel sonno profondo (quello provocato dalle crapule e dalle ubriachezze!), bisogna pregare. Luca, l’evangelista della preghiera, indica in essa l’antidoto contro ogni cedimento.
L’invito è ad un’orazione costante, secondo quella che è l’ottica tipica del terzo vangelo; è da valorizzare in tal senso l’espressione in ogni momento, e per illustrarla si potrebbero richiamare figure lucane di oranti che perseverano nella preghiera, come la profetessa Anna nel tempio, oppure si potrebbero rammentare le parabole sulla preghiera insistente, come quella dell’amico importuno o della vedova e del giudice iniquo.
Luca non si ferma a ricordare la necessità di una perseveranza nella preghiera, ma ne delinea anche alcuni contenuti necessari. Qui non è la preghiera che fa presente a Dio i propri progetti o interessi, ma la preghiera che chiede a Dio la forza per attraversare il tempo della prova nella fedeltà, il tempo del dolore nella pazienza; e aggiungeremmo noi, alla luce dell’intero insegnamento lucano sulla preghiera e sulla necessità del ringraziamento, che bisogna pregare per avere la forza di attraversare il tempo della gioia nella gratitudine.