Nella messa della notte e in quella dell’aurora viene proclamato il vangelo della nascita di Gesù, tratto da Lc 2,1-20. Il racconto si può dividere in tre parti:
- Ambientazione storica e nascita: vv. 1-7;
- Annuncio angelico: vv. 8-14;
- Reazioni umane: vv. 15-20.
La liturgia ci chiede di iniziarne la lettura nella notte (vv. 1-14) per completarla durante la messa dell’aurora (vv. 15-20).
Notiamo da subito che Luca non pone al centro della narrativa la nascita del bambino, ma l’annuncio celeste e le reazioni umane: gioia, stupore, silenzio. L’evangelista, dunque, non intende ‘spiegare’ il mistero, ma condurre il lettore ad accoglierlo nella propria esistenza. Nel brano colpisce, inoltre, l’insistenza su particolari apparentemente banali: l’avvolgere in fasce (vv. 7.12) e deporre nella mangiatoia (vv. 7.12.16). La ripetizione e soprattutto il fatto che per due volte siano indicati come ‘segno’ incuriosisce il lettore e lo spinge a cercare di decodificarne il significato.
Ambientazione storica e nascita: vv. 1-7
Luca introduce il racconto della nascita di Gesù con una formula solenne, ponendolo sullo sfondo della storia ‘universale’. Mentre gli studiosi sollevano seri dubbi a riguardo della sua accuratezza storica, concordano a riguardo dello scopo che intende perseguire: aiutare il proprio lettore a comprendere che anche se il mondo sembra essere dominato da poteri umani – Cesare Augusto, Quirinio, Erode – l’autentico potere appartiene a Dio. Soltanto Dio guida la storia umana, trasformandola in storia sacra.
In questa luce il censimento, pensato come strumento di rafforzamento del potere e dell’oppressione dei sudditi, diviene il luogo del compiersi del volere di Dio: Maria e Giuseppe devono recarsi a Betlemme non per un ordine umano, ma per adempiere le Scritture (Mi 5,1), perché il figlio di Davide possa nascere nella città dei suoi padri (1,32-33). Mentre la storia umana ha per protagonisti i potenti, la Storia di Dio pone al centro i poveri, gli ʿanawîm che attendono la salvezza dal Signore e non dai poteri umani.
Il racconto della nascita è estremamente sobrio: «Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio». La fantasia popolare ha giocato sul termine katàlyma – tradotto come ‘alloggio’ nella nostra versione e ‘albergo’ nella versione del 1974 – per costruire un racconto non scritto. I dati sono molto limitati: possiamo probabilmente escludere l’idea dell’albergo o del caravanserraglio, dato che in 10,34 Luca utilizza un termine diverso, pandochèion. Il nostro termine ricorre invece in 22,11 quando descrive la ‘stanza’ dove Gesù si appresta a celebrare l’ultima cena. Si tratta dunque, probabilmente, della casa, forse la casa della famiglia allargata di Giuseppe.
L’evangelista non si sofferma tuttavia su questo aspetto marginale, ma precisa tre fatti: il bambino è il primogenito; è avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. La sottolineatura del ‘primogenito’ serve a introdurre l’episodio seguente quando, proprio perché primogenito, Gesù sarà portato al tempio per essere offerto a Dio (Lc 2,22-23). Meno chiaro è il riferimento alle fasce ed alla mangiatoia.
Ci sono state diverse spiegazioni che possono essere riassunte da tre ipotesi:
- Fasce e mangiatoia, come segni modesti, disadorni, quotidiani, segni dello stile di un Dio che si rende incontrabile nell’impotenza di un bambino. È un Dio che non si impone e non fa paura: un Dio che rinuncia ad ogni forma di potere per essere ‘uno’ con noi. È un Dio che si identifica con l’ultimo, con il più fragile, con l’emarginato di ogni società: chi vorrà incontrarlo, dovrà imparare a riconoscerlo nel vagito di un neonato, nel grido del povero, nel silenzio di chi non ha voce.
- Fasce e mangiatoia come anticipazione del destino del bambino. Luca invita a leggere la nascita sullo sfondo del mistero pasquale: il gesto di Maria di ‘avvolgere’ il bambino e ‘deporlo’ nella mangiatoia (2,7.12) anticipa perciò le azioni di Giuseppe d’Arimatea, quando, dopo la morte di Gesù, avvolgerà il suo corpo nel lenzuolo funebre per deporlo nella tomba (23,53).
- Fasce e mangiatoia come compimento delle Scritture. Sullo sfondo delle parole di Salomone «Fui allevato in fasce e circondato di cure» (Sap 7,4), le fasce divengono segno di attenzione e cura ‘regale’. Per quanto riguarda la mangiatoia, il riferimento più interessante si trova in Is 1,3: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo signore, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Nel contesto di una contesa profetica (rîb profetico), la mangiatoia diviene il simbolo della cura amorevole di Dio a cui il popolo risponde con l’abbandono e la ribellione. Il bambino deposto nella mangiatoia diviene dunque il segno estremo della ‘cura’ di Dio per il suo popolo.
I pastori, subito dopo, comprenderanno il segno che viene proposto loro dall’angelo e si metteranno in cammino e così incontreranno il loro Signore. Seguendo i pastori, anche il lettore di ogni tempo è invitato a riconoscere nel bambino l’oggi della salvezza divina offerta a ogni uomo; il Salvatore che libera e perdona i peccati; il Cristo Signore che vince la morte.
Annuncio angelico: vv. 8-14
La seconda parte offre l’interpretazione dell’evento. C’è un cambio di scena: ci si posta nei campi dove sono protagonisti l’angelo e i pastori.
Ampia è la discussione tra gli studiosi sulla percezione della figura dei pastori al tempo di Gesù. In testi rabbinici tardivi (II sec. d.C.), sono descritti come comuni malfattori e ladri, tanto che era interdetto commerciare con loro e farli testimoniare nei processi. Nell’Antico Testamento l’immagine è sicuramente più positiva: Dio stesso viene identificato come il vero pastore d’Israele (Ez 34,11-24), mentre la figura del pastore è associata a due grandi personalità, Mosè e Davide.
La contrapposizione con i poteri politici (vv. 1-2) e il riferimento a Betlemme come città di Davide (v. 11), permettono di assumere come sfondo interpretativo la storia del re-pastore Davide. Come Dio ha scelto Davide, l’ultimo dei suoi fratelli, così Dio chiama gli ultimi come primi testimoni del fatto più grande della storia.
A questi ‘ultimi’ l’angelo del Signore appare: la gloria luminosa che li avvolge indica la presenza stessa di Dio. Dopo l’invito a non temere, Luca mette in bocca all’angelo un verbo a lui particolarmente caro, euanghelizomai «vi annuncio/evangelizzo» (1,10; 3,18; 4,18; 7,22; etc.). Il ‘vangelo’ dell’angelo offre una sintesi dell’identità del bambino, che il lettore ha già udito nell’annunciazione a Maria. L’accento è sul quando e il dove: «oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (v. 11).
Segue una teofania: il cielo si squarcia e una moltitudine celeste rivela il protagonista nascosto: Dio. Il dialogo tra cielo e terra è enfatizzato da tre corrispondenze: gloria // pace; a Dio // agli uomini; cielo // terra. La nascita di Gesù diviene dunque il ponte che lega per sempre Dio e l’uomo.
Tutto ciò è dovuto all’ eudokia, un termine complicato da tradurre. Mentre nel passato il termine era riferito agli uomini per designare coloro che sono degni di ricevere il dono («uomini di buona volontà»), oggi si preferisce riferirlo a Dio, all’amore incondizionato che si fa dono («uomini che Dio ama»). Probabilmente Luca, come fa altrove, ama giocare con il duplice significato del termine. In questo modo trasforma l’annuncio in compito.
Alla fine del racconto evangelico, durante l’ingresso di Gesù nella città santa, la fola ripeterà le parole della schiera angelica ‘capovolgendole’: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (Lc 19,38). La pace che il cielo ha augurato alla terra al momento della nascita del Re, viene ora riversata in cielo dalla lode umana, all’inizio della sua Pasqua. Attraverso quest’inclusione Luca ci aiuta a comprendere il significato dell’incarnazione: la riconciliazione tra cielo e terra che si fa luogo di incontro nel bambino di Betlemme e nell’uomo crocifisso.
Andiamo fino a Betlemme: vv. 15-20
Siamo nella terza parte del racconto che si è iniziato a leggere nella notte. È il momento culminante in cui tutti i protagonisti umani, Maria e Giuseppe e i pastori, si incontrano intorno al bambino. Per Luca rappresenta un momento di sintesi, dove raggiunge il suo scopo: educare i propri lettori ad accogliere il mistero, a viverlo nella propria esistenza.
Ci offre pertanto due modelli: i pastori e Maria.
I pastori
Avendo ricevuto la ‘buona notizia’ i pastori si pongono alla ricerca, si affrettano: lo stesso verbo sarà ripetuto per due volte in 19,5.6 per descrivere l’atteggiamento di Zaccheo che, senza indugio, apre la propria casa alla salvezza. Rimanda ancora all’atteggiamento di Maria quando, ricevuto l’annuncio, «andò in fretta» (1,39) ad incontrare Elisabetta.
Visto il bambino e riconosciuto il segno, i pastori si trasformano in testimoni: «riferirono ciò che del bambino era stato detto loro» (v. 17). Come altri personaggi lucani, non sono i più idonei: non appartengono alla casta sacerdotale e non sono esperti delle Scritture. Tuttavia, sono coloro che si lasciano incontrare; sono coloro che dopo aver ascoltato la voce, credono alla Parola e si lasciano condurre e ‘usare’ da Dio.
Testimoni dell’incontro, tornano alla loro vita ordinaria: «glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (v. 20). Il loro atteggiamento descrive il senso dell’esistenza della comunità credente. La chiesa esiste per testimoniare un incontro che ha trasformato l’esistenza:
quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo (1 Gv 1,3-4).
Maria
La testimonianza dei pastori suscita ‘stupore’. È un termine ricorrente in Luca: tutti si stupirono all’annuncio che il nome del figlio di Zaccaria sarebbe stato Giovanni (1,63) e gli stessi genitori di Gesù si stupiranno di fronte alla profezia del vecchio Simeone (2,33). Lo stupore è paragonabile all’aurora o al seme: apre al mistero perché scaturisce da uno sguardo contemplativo, aperto alla novità di Dio. Chi non sa stupirsi non sa rischiare; non potrà mai porsi in cammino e giungere alla fede.
Lo stupore però non basta: è solamente l’inizio, un primo passo nel cammino di fede. Il racconto perciò continua focalizzando su Maria. Anche lei ascolta la testimonianza dei pastori e condivide lo stupore dei presenti: Maria però prosegue oltre: «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19).
Maria rimane in silenzio. Nel racconto dell’annunciazione Maria chiede spiegazioni, obietta, offre la propria disponibilità. Nel racconto della visitazione canta il realizzarsi della promessa. A Betlemme, mentre persone diverse convergono verso di lei e il bambino, mentre voci celesti e umane si intrecciano nel proclamare i prodigi di Dio, Maria tace. Il suo silenzio non indica accettazione passiva degli eventi: Maria ne penetra il senso, meditandoli e rapportandoli nel suo cuore. Non comprende tutto quello che viene detto, ma lo conserva nel cuore e lo confronta dentro di sé.
Le nostre traduzioni non riescono a rendere la profondità del testo greco che potremmo parafrasare come «tesoreggiava e gettava insieme ( symballō) nel cuore fatti e annunci». I padri della Chiesa portano l’esempio di metalli preziosi ‘gettati’ nella fornace, perché si purifichino dalle scorie e si amalgamino a vicenda; o delle pietre trascinate dal fiume per giungere al mare luminose e portatrici di luce. Allo stesso modo le parole ‘gettate insieme’ nel cuore di Maria si purificano e si chiarificano l’una con l’altra.
Tutto ciò richiede silenzio, profondità. Luca ci dice che il ‘mistero’ di Dio non fa rumore, non è appariscente, non usa i megafoni per comunicarsi. Soltanto coloro che sanno percepire la sua voce possono vedere nel volto del bambino deposto nella mangiatoia la manifestazione della «bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tt 3,4).
BUON NATALE