Nella quarta domenica di avvento viene proclamato il brano del vangelo successivo all’annunciazione a Maria: Lc 1,39-45. Si tratta del racconto della visitazione di Maria a Elisabetta che appartiene allo schema letterario dei racconti di missione. Con esso il terzo evangelista fa di Maria il perfetto modello dell’evangelizzatore, perché ella, salendo sulla montagna di Giuda, porta con sé il Cristo e dona così il Vangelo al popolo che attende la visita del Signore.
Occhi aperti sulla storia di Dio
Propongo di leggere nell’ottica della missione i vari particolari che costituiscono l’introduzione narrativa al brano (vv. 39-41). Maria non si nasconde, non si ripiega su di sé, a differenza di Elisabetta, raccolta nella meditazione gioiosa per la fine della propria umiliazione (cfr. Lc 1,23-25); al contrario Maria si mette in movimento per portare il lieto annunzio che sta misteriosamente prendendo forma nel suo grembo.
Resta però la questione del perché ella si metta subito in movimento verso la montagna di Giuda, visto che l’angelo non le ha dato alcun ordine in tal senso. Ebbene, se sale verso la montagna di Giuda, non è affatto per verificare la veridicità delle parole dell’angelo, ma, al contrario, per accogliere in piena obbedienza l’invito che l’angelo implicitamente le ha rivolto: contemplare il segno che il Signore le vuole donare attraverso Elisabetta. Questo invito è espresso nell’ecco (greco: idou), che letteralmente andrebbe reso con un «guarda», «vedi». Ora, Maria è la vera credente che non rifiuta il segno che il Signore le accorda e perciò sale sulla montagna per andare dall’anziana parente miracolosamente gravida.
In questo Maria appare antitetica alla figura dell’incredulo Acaz, che rifiutò il segno propostogli dal Signore attraverso il profeta Isaia: «Acaz rispose: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”» (Is 7,12). Allora il profeta lo rimprovera aspramente: «Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio?» (Is 7,13). Da autentica credente, Maria intraprende allora il suo lungo viaggio per «vedere» ciò che il Signore sta compiendo in mezzo al suo popolo, per contemplare con Elisabetta l’azione potente e salvifica del Dio d’Israele. Così è implicita anche una sollecitazione per il lettore: come Maria, egli è chiamato a una fede «dagli occhi aperti», una fede che cerca di rendersi conto di ciò che Dio opera nella storia degli altri fratelli e sorelle.
Donna in movimento
L’evangelista ci consegna il ritratto di Maria ‘in movimento’, aspetto che appare ancor più chiaramente nel testo greco, dove in un solo versetto ricorre per tre volte la particella di movimento eis (v. 39), un’altra volta la medesima particella appare all’interno nel verbo composto eisérchomai (v. 40). Questo movimento avviene «in fretta», termine caro a Luca, per indicare un forte slancio religioso, cioè una grande passione che si impossessa dell’uomo, come nel caso dei pastori che vanno «in fretta» a Betlemme (Lc 2,16) spinti dall’angelico annuncio.
Si ricordi anche la fretta di Zaccheo che scende quasi a ruzzoloni dall’albero (Lc 19,6) e anche se non c’è lo stesso termine greco, possiamo rammentare la prontezza dei discepoli di Emmaus che ritornano in città ad annunciare agli Undici la risurrezione del Signore. Peraltro una «in fretta» simile è riscontrabile anche in vari testi dell’Antico Testamento, tutti pervasi di atmosfera religiosa, come, ad esempio, la fretta di Abramo nel correre all’armento e nell’imbandire il banchetto per i tre divini ospiti (cfr. Gen 18,1-16).
Luca fa trasparire qui la volontà d’imporre all’attenzione del proprio lettore la prontezza e l’agilità del salire di Maria verso la montagna di Giuda; con tale immagine vuole positivamente provocarlo e implicitamente interpellarlo perché si interroghi sulla sua prontezza alla missione e riconosca la necessità di rompere gli indugi e le perplessità che molte volte ostacolano l’annuncio del Vangelo.
Maria è l’icona perfetta della prontezza e disponibilità incondizionata alla missione, nel suo salire solerte presso la parente Elisabetta, come portatrice della lieta notizia.
Anche la destinazione del viaggio è quanto mai significativa: «la regione montuosa», verso un villaggio il cui nome resta anonimo, ma con un orizzonte facilmente riconoscibile, ossia i monti che cingono Gerusalemme. Si coglie così un’allusione innegabile al famoso passo di Is 52,7: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace… che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”».
II saluto di Maria
Il viaggio si conclude con l’ingresso nella casa di Zaccaria e con il saluto ad Elisabetta. Nel saluto di Maria non vi è solo l’adempimento di una formalità, di una consuetudine di buona educazione, ma una parola efficace che realizza quanto viene promesso. Con la missionaria Maria si verifica già quanto Gesù dirà poi ai suoi inviati: «In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi» (Lc 10,5-6). Il dono della pace, della gioia sovrabbondante, accompagna il saluto di Maria ad Elisabetta. Questa infatti viene riempita di Spirito Santo, e il bambino sobbalza nel suo seno per la gioia. Ecco dunque i frutti della lieta notizia: quando entra nella vita di una persona – come in questo caso nella vita di Elisabetta che accoglie il saluto di pace di Maria –, essa genera gioia e alimenta quell’esultanza incontenibile che è generata dall’effusione dello Spirito, il dono dei tempi nuovi, messianici.
Elisabetta, in quanto ripiena di Spirito Santo, parla allora con parole profetiche e si può altresì correttamente affermare che, attraverso di lei, parla anche il bambino che ella porta nel suo grembo, poiché anch’egli è ripieno di Spirito Santo. In tal modo il lettore, attraverso le parole di Elisabetta, viene invitato a condividere la sua ammirazione per Maria, la serva del Signore e la credente!
La scena di gioia incontenibile richiama ancora una volta il testo isaiano dell’arrivo a Sion del messaggero di lieti annunzi. Infatti la risposta di Elisabetta è un’acclamazione a gran voce, un grido a squarciagola, proprio come quello delle sentinelle di Gerusalemme che per prime ricevono la entusiasmante notizia: «Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion» (Is 52,8).
Intanto Maria rimane in silenzio e ascolta il discorso di Elisabetta. È una figura silenziosa estremamente suggestiva perché oltre ad annunciare la buona novella e a portare il sospirato saluto di pace, sa insieme tacere e ascoltare, per contemplare i frutti del Vangelo nei cuori. Poi il silenzio finirà e quando ella parlerà sarà solo per magnificare il suo Dio (cfr. Magnificat).
Tenendo presente che qui Luca sta tracciando un ritratto ideale per l’apostolo, per l’annunciatore/trice cristiano/a, si comprende un chiaro insegnamento: l’annunzio veramente efficace affonda le proprie radici nell’ascolto e nella contemplazione.
Elisabetta loda Maria
Le parole di Elisabetta, che iniziano con un’acclamazione e che sono molto di più di una semplice felicitazione («Benedetta tu fra le donne», v. 42), si concludono con un’altra esclamazione, con un beatitudine (= macarismo): «Beata colei che ha creduto…» (v. 45). In mezzo ci sta una frase interrogativa, colma di sorpresa e meraviglia: «A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (v. 43).
Da questo versetto è utile partire per comprendere il discorso di Elisabetta a proposito di Maria. Ella mette in risalto tutta la sua indegnità e, per contrasto, la dignità eminente della «madre del mio Signore». Si avverte qui un’eco di un episodio dell’Antico Testamento, quello di Davide che si domanda stupito la ragione per la quale Dio ha deciso di entrare nella sua casa: «Come potrà venire da me l’arca del Signore?» (2 Sam 6,9). La domanda di Davide però indica anche la sua esitazione ad accogliere l’arca del Signore, che resta qualcosa di ‘temibile’ per l’uomo. Qui, invece, lo stupore di Elisabetta è tutto intessuto di gioia e di ammirazione e gratitudine, senza alcuna ombra di timore.
L’espressione con cui Elisabetta si rivolge a Maria, indica la ragione della grandezza e dignità incomparabili di colei che è venuta a visitarla: quel figlio che Maria porta in grembo è «il Signore»! Si può dire anche che la grandezza del Figlio comunica ulteriore dignità anche alla madre.
Le affermazioni di Elisabetta richiedono una spiegazione per non suonare roboanti, eccessive; è quanto lei si affretta a precisare: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (v. 44). Solo in questa parte del presente versetto Elisabetta parla di se stessa, mostrando la consapevolezza della propria povertà e pochezza e insieme la gioia per I’immeritata grazia ricevuta con la visita di Maria a casa sua. Umiltà e fede risultano indissociabili, e solo nell’umiltà si riconosce la grandezza di Dio.
Sostiamo ora sulle due frasi esclamative che aprono e chiudono il discorso di Elisabetta: la benedizione introduttiva e la beatitudine finale.
Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo
L’esclamazione iniziale di Elisabetta pur non essendo una diretta citazione biblica, è un tema molto conosciuto nell’Antico Testamento (cfr. Gdc 5,24; Gdt 13,18). Si pensi qui alle benedizioni di Abramo da parte di Melchisedek, dopo la vittoria sui quattro re (Gen 14,19-20).
È comune a tutti questi testi il fatto che tali benedizioni siano proclamate sull’eroe/eroina che ha appena conseguito una straordinaria vittoria. Ebbene, di quale vittoria si tratta qui per Maria? È chiaramente la vittoria della sua fede, ottenuta attraverso l’obbedienza pronta e fiduciosa al progetto di Dio.
Sempre riferendoci ai testi analoghi dell’Antico Testamento, si nota poi come, dopo la benedizione dell’eroe e dell’eroina, segua solitamente la benedizione di Dio, in quanto Egli ha garantito la vittoria al suo eroe (cfr. Gen 14,19-20: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici»). Anche qui si dà qualcosa di simile, ma anche di profondamente diverso, originale: alla benedizione della madre segue infatti la benedizione del figlio da lei portato in grembo. Si può ritenere allora questa ultima benedizione una proclamazione dell’agire benevolo di Dio verso il figlio recato in grembo, simile a quella rivolta alla madre; oppure – e ciò ci sembra più pertinente – si deve intendere nel senso che Elisabetta eleva la sua benedizione a quel ‘frutto del grembo di Maria’, proprio perché Egli è Colui che le ha dato la vittoria! Se interpretate così, le due frasi, apparentemente due principali fra loro coordinate, ma in realtà una principale e una subordinata, evidenziano in modo coerente il substrato aramaico della frase detta da Elisabetta: «Tu sei la benedetta tra le donne, perché il frutto del tuo grembo è il Benedetto».
«Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore»
L’esclamazione, con cui Elisabetta chiude il suo discorso e che proclama Maria beata (v. 45), è in senso tecnico un macarismo. Chiariamo brevemente il suo senso nei testi biblici. In greco il termine ‘beato’ è makários, donde il termine tecnico, usato dall’esegesi, di macarismo. Il lemma greco è un aggettivo, ma l’equivalente ebraico è un sostantivo plurale, usato alla cosiddetta ‘forma costrutta’, cioè quella che indica il nesso genitivale. Questa espressione ebraica suona come ʾašre che potremmo rendere con ogni felicità a X. Si deve notare che il termine ʾašre è indeclinabile e non è mai un’esclamazione isolata, ma è sempre riferito ad un soggetto esplicito, per il quale si motiva, in qualche modo, la ragione di questa felicitazione. In altre parole, non c’è mai l’esclamazione ‘beato!’ senza che venga indicato ‘chi’ è beato. La beatitudine si distingue dalla benedizione, pur essendole vicina; le è affine, ma non identica. Il contenuto di entrambe è il medesimo, perché si tratta di una ‘vita buona, bella e giusta’ ma, mentre la benedizione sottolinea l’agire benedicente di Dio verso l’uomo, la beatitudine è una constatazione di tale benedizione. In altre parole, la benedizione viene dall’alto ed è dunque un’efficace realizzazione di felicità nei confronti del ‘benedetto’; la beatitudine non produce, ma constata con stupore la felicità di qualcuno, in qualche modo vi partecipa e ne suscita il desiderio.
Si deve infine notare che la ‘beatitudine’ è una forma letteraria antropologica, ma fondamentalmente di natura religiosa; non si proclama ‘beato’ uno perché possiede dei beni, prescindendo dal loro eventuale significato religioso. La ‘beatitudine’, in definitiva, proclama la salvezza, esaltando con la lode una persona o un gruppo di individui, esattamente a motivo della loro condizione di salvezza che li rende beati, felici.
Qui la beatitudine di Maria è riconosciuta come fondata nella sua fede, per la quale ella riconosce il compimento della parola del Signore, affermando la fedeltà e il senso buono dell’agire divino verso l’umanità. Così la dichiarazione di beatitudine è anche una spiegazione: Maria è nella beatitudine della fede, perché nella fede, avendo creduto alla parola di Dio, è diventata Madre del Signore (cfr. Le 8,21; 11,38)!