Che cosa dobbiamo fare? III Domenica di Avvento anno C

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Il Vangelo di questa terzo domenica di avvento, tratto da Lc 3,10-18, è la continuazione di quello di domenica scorsa. Siamo al capitolo terzo di Luca e il protagonista è Giovanni Battista e la sua predicazione.

Tre gruppi di persone lo incontrano, ponendogli tutti la stessa domanda: «Che cosa dobbiamo fare». Sono la folla, i pubblicani e i soldati (Lc 3,10-14).

Giovanni e le folle

I primi interlocutori sono le folle (Lc 3,10-14). A loro viene offerta un’istruzione riguardante la vita quotidiana e indicazioni concrete per un comportamento coerente con la decisione della conversione esplicitatasi nell’adesione alla prassi battesimale.

« Che cosa dobbiamo fare?» (v. 10). Il che fare? posto alle folle rileva la preoccupazione di Luca di mostrare come la lieta notizia debba diventare vita concreta e si traduca in una fattibile e reale condotta di vita. Quanto questo stia a cuore al terzo evangelista lo si può arguire anche dalla domanda posta dagli ascoltatori di Pietro, dopo aver udito da lui il primo annuncio cristiano, a Pentecoste; essi, «trafitti nel cuore», gli chiedono: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). Simile interrogativo ricorre sulle labbra del carceriere, che constata la liberazione miracolosa di Paolo e Sila e domanda: « Signori, che cosa devo fare per essere salvato?» (At 16,30). Questa domanda era stata fatta anche da Paolo dopo l’incontro con il Risorto sulla via di Damasco: « Che devo fare, Signore?» (At 22,10).

Per Luca accogliere il Vangelo è far proprie le esigenze del ravvedimento, imprimere nella propria vita un reale cambiamento di rotta. A queste folle il Battista risponde indicando una prassi che sia sotto il segno della condivisione e dell’aiuto di chi è in stato di bisogno, come si evidenzia dalla richiesta di compartecipare il cibo e il vestito a chi ne è senza (v. 11). È questo un tema caro all’evangelista, che non demonizza i beni terreni, ma vede in essi un’occasione per farsi degli amici in cielo, cioè per soccorrere i poveri. Come ben si vede, la risposta del Battista non confina l’adesione alla lieta notizia in atmosfere spirituali impalpabili ed esoteriche, e in pratiche meramente rituali, ma in quella prassi solidale che è l’espressione della ricerca di giustizia, di fraternità, di rispetto dell’altro. La risposta data alla domanda della gente è, in definitiva, simile alla proposta spirituale tracciata per i credenti dai grandi testi dell’Antico Testamento e, in particolare, dal Codice di Santità (Lv 17 – 26) e dal Deuteronomio, dove Dio appare voler un mondo prospero e ricco, in cui però l’accesso ai beni è reso possibile a tutti attraverso l’obbedienza alle leggi giuste e la pratica generosa dell’elemosina.

Giovanni e i pubblicani

La domanda delle folle è reiterata da quella posta dai pubblicani, venuti per farsi battezzare dal Battista. Ci si aspetterebbe che il Battista li respinga o che chieda di rinunciare alla loro professione di gabellieri, tanto odiata dal popolino. Questa aspettativa è forse condivisa anche dal lettore, il quale trova difficile pensare che un asceta come il Battista, dalla vita tanto sobria e povera, possa consentire di maneggiare i soldi. Ebbene, la risposta è sorprendente, perché Giovanni non chiede affatto di rinunciare ad un’attività finanziaria, demonizzando così il denaro, e neppure di non voler perseguire redditi, ma indica uno stile di rispetto, di misura nel guadagno, di non esosità: « Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato» (Lc 3,13). È qui opportuno, per apprezzare la risposta del Battista, chiarire meglio chi fossero i pubblicani.

Pubblicano è un nome comune che designa genericamente un esattore di tasse, uno che riscuote denaro. Più precisamente occorre distinguere tra impresari doganali e semplici impiegati doganali. Gli impresari concludevano con l’amministrazione romana degli accordi per la riscossione delle tasse, pagando anticipatamente l’appalto. Nel corso dell’anno successivo, essi riscuotevano le tasse cercando di trarne il massimo profitto, e quindi non solo di recuperare l’interesse sul denaro anticipato, ma anche cercando un guadagno con un incremento delle tasse effettivamente riscosse. È questo passaggio che il Battista segnala come pratica ingiusta. Infatti era questa pratica che rendeva i pubblicani possessori di grandi fortune. Peraltro l’impresario affidava poi il lavoro vero e proprio di dogana ad altri, che lo svolgevano come impiegati. Costoro difficilmente accumulavano consistenti ricchezze; in compenso erano ricambiati con una buona dose di odio da parte del popolino, che li vedeva come i suoi più prossimi vessatori.

Giovanni e i soldati

L’altro gruppo che si rivolge a Giovanni per avere indicazioni concrete è quello dei soldati, ancora più problematico, in quanto rappresentante di un potere di occupazione militare. Non si pensi qui alle guardie del Sinedrio, le quali verosimilmente si sentivano tranquille nella loro professione, ma a quegli stranieri al servizio di Erode o dei romani. Impressiona allora sapere che la predicazione di Giovanni raggiunge anche questi, che sembrerebbero restii o ancor più ostili ad accogliere il messaggio di un ispido profeta ebreo. Invece la parola di Dio tocca anche loro (realizzandosi così la parola del profeta Isaia: «Ogni carne vedrà la salvezza di Dio», Is 3,5). A costoro il Battista risponde che dovranno guardarsi dall’estorcere dei beni a persone indifese e ad usare prevaricazioni. È chiaro che il Battista non sta pensando al momento della battaglia, in cui inevitabilmente è in gioco la propria o l’altrui vita, ma alla tentazione di chi possiede le armi e la legittimazione del potere, di comportarsi in modo ingiusto e violento.

Il Battista, allora, non definisce la loro professione (come precedentemente quella dei pubblicani) come irrimediabilmente corrotta, insuperabilmente ingiusta e diabolica, ma li invita invece a vegliare su se stessi, onde evitare ogni abuso e non cadere nella seduzione della cupidigia e della violenza. Anche la loro professione potrà essere esercitata in modo giusto, compatibile con una fede che permea il quotidiano.

Attraverso le parole di Giovanni Battista, Luca ci trasmette la sua visione sulla vita cristiana, lontana da estremismi, da intolleranti integralismi e da slavati relativismi. La via del discepolo in Cristo è fatta di esigenze praticabili, di richieste possibili anche se resta comunque esigente, poiché chiude un’adesione totale, piena.

Con questo, il terzo evangelista non riduce la morale del Regno a una semplice piattaforma sapienziale, nemica di eccessi utopistici, alla ricerca di alcuni atteggiamenti condivisi. Contro tale riduzione è bene non dimenticare la motivazione delle risposte che il Battista dà ai suoi interlocutori, e cioè il venire di Dio in mezzo agli uomini, e la necessità di preparare le strade all’incontro con Lui.

Colui che viene

La seconda parte del vangelo odierno (Lc 3,15-18) – secondo la redazione lucana la terza e ultima parte della predicazione di Giovanni – riporta la risposta del Battista a coloro che vorrebbero identificarlo con il Messia. Luca, a differenza di Marco e di Matteo, non si limita a riferire le parole di Giovanni circa colui che verrà dopo di lui, ma riporta la domanda e le aspettative presenti negli ascoltatori, allo stesso modo del quarto vangelo, quando riferisce dell’interrogatorio subito dal Battista circa la sua identità messianica ad opera di una ‘commissione’ venuta da Gerusalemme (cfr. Gv 1,19-34). In questo modo Luca getta una luce sulle attese che serpeggiavano nel giudaismo del I sec. d.C., e dei forti fermenti messianici che agitavano vaste masse di persone.

Luca mette in risalto come il Battista rifiuti ogni aspettativa messianica nei suoi confronti, ma si auto presenti come un ‘indice’ puntato verso colui che è davvero il Cristo.

L’annuncio di Giovanni Battista si comune di tre paragoni, tra sé e la figura del Cristo: essi riguardano il potere, la dignità, il modo dell’attività. In tutto appare la superiorità del Cristo rispetto a lui.

  • Per quanto riguarda la forza, è definito il più forte, poiché ha davvero la capacità di sconfiggere l’Avversario, il nemico dell’uomo. Il racconto successivo dei miracoli e degli esorcismi estenderà la verità di quanto annunziato qui dal Battista.
  • Per quanto riguarda la dignità del Cristo, il confronto tra lui e il Battista è così sproporzionato che non sembra reggere il paragone con la distanza esistente tra il padrone e lo schiavo, che ha il dovere umiliante di sciogliergli i saldali. Ma forse il tema del sandalo allude anche al motivo della geʾûllā, per cui cedere il sandalo (Dt 25,9 e Rut 4,6-8) è riconoscere all’altro il diritto-dovere di riscatto; ebbene Giovanni non può in alcun modo pretendere di essere il redentore del popolo, colui che è venuto a riscattarlo.
  • Per quanto riguarda l’attività, si afferma che il battesimo portato dal Messia sarà in Spirito Santo e fuoco. Si badi che i sinottici non parlano mai di un ‘battezzare’ di Gesù; perciò il senso del battesimo, qui indicato per Gesù, deve essere metaforico e non tanto la descrizione di una prassi. In sostanza Giovanni vuole dire che l’attività del Messia sarà un immergere nella realtà dello Spirito, cioè nel mondo di Dio.

Tuttavia nel suo annuncio egli aggiunge anche l’immagine del fuoco e quella del ventilabro che attua la separazione tra la pula e il buon grano. In ciò il Battista lascia intuire come si aspetti un Messia in cui si dia una chiara separazione giudiziale tra i giusti e gli empi, tra il bene e il male, così come è attesa per i tempi escatologici. Su ciò dovrà scontrarsi con la realtà della prassi di Gesù, che per un verso gli sembrerà deludente, in quanto non attuante quella netta separazione, ma al contrario una prassi di accoglienza e di misericordia verso i peccatori (cfr. Lc 7,18ss.).

In definitiva, in questi versetti. Luca tende a sottolineare che il Battista non ha preteso di essere un concorrente del Messia, anzi che egli è stato completamente subordinato. Egli annuncia semplicemente la salvezza, ma non porta la salvezza, che invece sarà arrecata da colui che lo seguirà. Gesù è il più forte, secondo Luca, perché dà lo Spirito, cioè il dono promesso dai profeti per i tempi messianici, quando si farà la mietitura (Gl 4,13).

Purtroppo il testo liturgico non riporta i due versetti con cui Luca conclude la sua presentazione di Giovanni Battista (cfr. Lc 3,19-20) che narrano la sua incarcerazione per ordine del tetrarca Erode. Sarebbe stato invece importante inserirli perché si vede così il vero prezzo della giustizia alla cui pratica Giovanni invita le folle. Egli non solo ha resistito alla pressione di coloro che l’avrebbero voluto come loro Messia, sfuggendo così alla tentazione di farsi passare per il Cristo, ma paga di persona il suo essere una voce libera, che annuncia la parola del Signore, che ha preso possesso di tutta la sua persona.

Il suo messaggio era rivolto a tutti, non comportava alcuna preclusione, persino nei confronti dei pubblicani e dei soldati. Avrebbe perciò dovuto essere accolto anche dal tetrarca, che invece crede di poter sfuggire alla denuncia del male, facendo tacere quella voce che si leva a denunciarlo apertamente.

Giovanni paga la propria giustizia con la libertà e tra poco con il prezzo della vita stessa. Anche in ciò egli è il precursore di Colui che deve venire.

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