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Inizio del Vangelo di Marco

1 Inizio (archē) del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
2Come sta scritto nel profeta Isaia:
Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà latuavia.
3Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri,
4vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico.
7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Il testo proposto è il prologo del Vangelo di Marco. L’inizio di ogni opera letteraria è estremamente importante perché l’autore svela se stesso ed il cammino che vuole proporre al suo lettore. Il vangelo di Marco non inizia nel tempio, come quello di Luca, o all’origine dei tempi, come il racconto di Giovanni: inizia con una professione di fede. Marco svela se stesso, dichiara il suo essere discepolo e la sua intenzione di coinvolgere i propri lettori in un cammino di fede.

Un nuovo inizio (v. 1)

Il termine iniziale archē può essere tradotto come principio, inizio o fondamento. Marco lo utilizza in altri tre contesti: 10,6 e 13,8.19. In due di questi (10,6 e 13,19) indica l’inizio assoluto, la creazione. Marco dunque sembra voler segnalare al suo lettore che con l’avvento di Gesù si apre un capitolo totalmente nuovo della storia umana, una nuova creazione, un nuovo mondo, una nuova genesi.

Siamo dunque al principio di qualcosa che Marco qualifica con un termine noto: euanghélion (vangelo). Il vocabolo non è un’invenzione marciana: è attestato in un’iscrizione del 9 a.C. in riferimento alla nascita di Augusto. Il verbo euanghéllō è utilizzato nei Settanta (la traduzione greca della Bibbia) due volte in Is 40,9 e in Is 52,7:

Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: ‘Regna il tuo Dio’.

In entrambi i casi la buona notizia riguarda l’intervento di Dio, la sua venuta (40,9) e la sua signoria salvifica (52,7). Nel Nuovo Testamento, la radice ricorre soprattutto negli scritti di Paolo. Leggiamo, per esempio in Rm 1,16-17:

Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco.

Marco qualifica il termine con un genitivo tradotto in modi diversi: vangelo di/riguardante Gesù. Sullo sfondo del percorso narrativo offerto da Marco, il termine non fa riferimento solamente alle parole o ai gesti di Gesù – che l’evangelista racconta in modo scarno rispetto a Luca o Matteo – ma alla sua persona, al mistero della sua identità che gradualmente verrà compresa da Pietro (8,27), da un centurione romano (15,39), ma soprattutto da coloro che, come le donne (15,40), avranno il coraggio di seguirlo fino alla fine, per condividerne la vita e la morte. Marco spiega dunque chi sta seguendo: segue il Messia d’Israele, rivelato ora come Figlio di Dio, ed invita i discepoli di ogni tempo a seguirlo.

L’annuncio di Giovanni (vv. 2-8)

Introducendo la figura di Giovanni, Marco indica due luoghi in cui iniziare la sequela: il deserto e la via.

Il deserto: con un cambiamento nella punteggiatura della sentenza originaria (Is 40,3), il deserto diviene il luogo in cui la voce grida. Notiamo che nel secondo vangelo sia Giovanni che Gesù inizieranno la loro missione ritornando nel deserto. Il deserto diviene, dunque, luogo della scelta radicale; il luogo in cui ogni idolo – potere, successo, popolarità, orgoglio – muore. Il deserto è il luogo in cui la relazione tra Dio, l’uomo e la terra si modifica. Parafrasando Osea, il cammino che porta alla fertilità passa per l’aridità del deserto. Il deserto è il luogo inospitale, lontano dal fascino del culto e dagli splendori del tempio, dove Dio abita. Per Giovanni, come per Gesù, diviene dunque luogo d’incontro, di formazione esistenziale e di purificazione. Marco darà al deserto una connotazione particolare quando, unico tra gli evangelisti, dirà che Gesù «stava con le bestie selvatiche» (1,13) caratterizzando il deserto come il ritorno alla condizione originaria, in cui il nuovo Adamo accetta di percorrere la via di Dio. Il deserto non rappresenta però una meta, ma un luogo di passaggio: Gesù ripartirà dal deserto per iniziare la sua missione, per portare un annuncio di conversione e di gioia (1,14).

La via (v. 2) è uno dei motivi narrativi nel vangelo di Marco 1. Giovanni è inviato a preparare la via; più tardi Gesù camminerà ‘sulla via’ e invierà i dodici chiedendo loro di non portare nulla per la via. Dal cap. 8 il termine diverrà una metafora per la croce: Pietro rifiuterà di seguire Gesù per la via, i dodici continueranno ad opporre alle vie del Messia le loro vie: soltanto un cieco guarito inizierà a seguirlo lungo la via (10,52).

In questa luce, è chiaro che nel secondo vangelo essere ‘sulla via’ indica molto di più che percorrere un sentiero: indica il camminare nella volontà del Padre verso il pieno compimento della sua volontà. Per il discepolo di ogni tempo camminare sulla via indica un percorso di crescita verso la comprensione e l’adesione alla ‘via’ di Gesù, una via che termina sul calvario. Il brano di oggi presenta Giovanni come il precursore, colui che cammina ‘davanti’ al Cristo. Giovanni precede non solo temporalmente, ma esistenzialmente, perché la sua vita sarà un preludio a quella di Gesù: mandato da Dio a proclamare un messaggio di conversione, sarà consegnato e ucciso. Gesù seguirà lo stesso cammino e inviterà chiunque voglia essere suo discepolo a percorrerla con lui:

Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (8,34).

Tornando alla persona di Giovanni, possiamo notare che Marco non racconta la sua storia. Da Luca sappiamo che è figlio di un sacerdote, concepito da genitori anziani. Nel vangelo di Marco irrompe sulla scena, accompagnato da riferimenti impliciti ed espliciti alle scritture: Es 23,20 (l’angelo inviato da Dio per accompagnare il popolo verso la terra promessa); Ml 3,1.23 (l’evocazione della figura di Elia); Is 40,3.

Nella sua predicazione designa Colui che deve venire come «il più forte», colui che battezzerà in Spirito Santo, al quale è «indegno di sciogliere i legacci dei sandali». Per comprendere questa espressione, possiamo ricordare che il Talmud babilonese precisa che il discepolo è invitato a compiere verso il suo padrone ogni genere di servizi che lo schiavo compie, ad eccezione di sciogliere i legacci dei sandali. Giovanni sembra dunque affermare che persino il compito più umiliante riservato allo schiavo è troppo alto per lui. La sua distanza dal Messia è ribadita anche nella presentazione del suo battesimo: non si tratta di un atto definitivo, ultimo, ma della preparazione per un battesimo ‘altro’, ‘nello Spirito’, amministrato ‘dal più forte’. In questo atteggiamento c’è tutta l’umiltà di Giovanni. Nelle Scritture, troviamo l’annuncio di un’effusione dello Spirito su ogni creatura negli ultimi giorni (Gl 3,1), ma l’annuncio del Battista supera l’attesa profetica: colui che verrà non battezzerà con acqua e non si limiterà a conferire il dono dello Spirito, ma immergerà nella vita stessa di Dio quanti vorranno accoglierlo.

Un battesimo di conversione (v. 5)

Il desiderio di salvezza manifestato dalle folle, si concretizza in un gesto che riconosce la propria povertà esistenziale:

Si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati (v. 5).

Anche solo sfogliando l’Antico Testamento rimaniamo stupiti dall’ampiezza dello spazio dedicato al peccato e dalla molteplicità di termini che vengono usati per descriverlo.

Uno dei termini ebraici più utilizzati (ḥātâ) ha il significato di sbagliare, spesso con il senso fisico di mancare il bersaglio (Gdc 20,16), di perdere la strada o di non pagare il tributo dovuto al proprio signore (2 Re 18,14). Il significato teologico sottolinea il ‘mancare’ nel rapporto con Dio soprattutto in campo cultuale. Un secondo termine (pešaʿ) è utilizzato anche in campo politico per indicare rivolta, rottura dell’alleanza (1 Re 12,19; Gen 31,36) e sottolinea maggiormente la volontarietà dell’atto, la scelta di un cammino diverso da quello proposto da Dio, la ribellione (cfr. Nm 14,9; Gs 22,19). Un terzo termine (ʿawōn) evidenzia la dimensione religiosa e si potrebbe tradurre come iniquità nella relazione con Dio (Gen 4,13; Gb 13,23).

Israele condivide con le altre culture la convinzione che il peccato è alla radice della violenza, dell’esperienza di fragilità e di morte, di dolore e di frattura interiore che ogni creatura sperimenta. Troviamo uno sviluppo molto ampio di questa tematica nei testi sapienziali – soprattutto nel libro di Giobbe (cfr. Gb 4,17-21; 15,14; 25,1-6) – e nei testi profetici. Ricordiamo, per esempio, l’auto-presentazione di Isaia:

… un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo ad un popolo dalle labbra impure io abito (Is 6,5).

Questa coscienza genera la paura di entrare in contatto con Dio, di stabilire una relazione con lui, perché egli è Santo per definizione: nessun uomo può vedere il suo volto e restare in vita (Es 33,20; 19,21; Gen 32,31). Perché l’uomo possa stabilire un rapporto con la sfera del divino è necessario un cambiamento radicale, la separazione rituale da ciò che è profano, dato dalla consacrazione. Luogo di questo cambiamento è il culto, vissuto come esperienza di purificazione che abilita la creatura ad entrare in contatto con il suo Dio. Capiamo allora perché i codici legali descrivono con grande precisione le diverse fonti di impurità ed i passi necessari a riportare la persona e la comunità in uno stato di purità: lavaggi, digiuni, offerte fino all’eliminazione fisica del peccatore dalla comunità.

Il Nuovo Testamento utilizza prevalentemente il termine hamartía, che nella letteratura del tempo indica ogni genere di errore: sbagliare il bersaglio nel lancio del giavellotto, commettere uno sbaglio nel campo rituale o ferire l’altro. Mentre il tardo giudaismo guarda ai peccatori come al gruppo di coloro che si oppongono a Dio e concepisce la purità come lontananza fisica da colui che ha peccato – «Non si associ un uomo con un peccatore, neppure per riportarlo alla legge» – Gesù propone una santificazione che ha nell’accoglienza dell’altro il suo culmine: ricordiamo, per esempio, la sua richiesta di anteporre la riconciliazione con il fratello all’offerta cultuale (cfr. Mt 5,23-24) o l’affermazione che l’amore di Dio e del prossimo vale più di tutti i sacrifici (cfr. Mc 12,33). Nel libro degli Atti, infine, il peccato è descritto come una condizione generale dell’umanità che è culminata nella decisione di crocifiggere Gesù: soltanto la conversione, intesa come adesione a Gesù nel segno del battesimo, può condurre a salvezza.

Sulle rive del Giordano, Giovanni prepara, dunque, il popolo che nel riconoscimento della propria realtà esistenziale si dispone ad accogliere la visita di Dio.

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