La trasfigurazione di Gesù in Marco 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, per- ché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Nella seconda domenica di quaresima siamo condotti dall’evangelista Marco su un alto monte, dove il Padre offre all’umanità il suo figlio: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7).

Leggiamo insieme il testo facendo attenzione ad alcune espressioni.

«Sei giorni dopo». La frase temporale crea non solo un legame con quanto era successo sei giorni prima, cioè con l’episodio di Cesarea di Filippo dove Pietro aveva riconosciuto Gesù come il Messia, l’inviato di Dio, ma rimanda il lettore ad Es 24,16, quando per sei giorni la nube coprì il monte prima dell’incontro tra Dio e Mosè. Come Mosè, Gesù sale al monte accompagnato da testimoni privilegiati (cfr. Es 24,1.9).

«Prese con sé». Non è solo una semplice richiesta di vicinanza fisica, bensì esprime una volontà di dono e di condivisione, il desiderio di partecipare ai tre discepoli qualcosa della propria identità divina.

Ma chi sono coloro a cui Gesù offre questa possibilità straordinaria di entrare nel Mistero del suo rapporto d’amore con il Padre e della sua realtà di Figlio di Dio?

Sono coloro che, invitati ad essere presenti con lui nell’ora angosciosa della sua lotta con il male, si addormentano (cfr. Mc 14,37). Sono i suoi discepoli e tra di essi vi è Pietro, colui che dopo essersi dichiarato invulnerabile di fronte ad ogni tipo di pericolo (Mc 14,29), rinnega Gesù, spaventato dal rischio di poter condividere la sua stessa sorte. Sono i figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, i quali poco tempo dopo aver sentito Gesù parlare della sua passione, gli si avvicinano chiedendo di poter partecipare alla sua gloria (Mc 10,37), una gloria che ancora concepiscono in termini di potere, di prestigio, di superiorità rispetto agli altri. Sono dunque uomini piccoli e fragili, dei peccatori… proprio come noi.

Pietro, Giacomo e Giovanni, tuttavia, non sono unicamente simbolo di incomprensione e fallimento. Pietro non è solo il prescelto che rinnega il Maestro per salvare la propria vita, ma è il pescatore reso «pescatore di uomini» (Mc 1,17), colui che riconosce in Gesù il Messia d’Israele (Mc 8,27) e che, tra le lacrime (Mc 14,72), confessa la sua colpa e riprende la sequela (Mc 16,7). Giacomo e Giovanni non sono solo i figli del tuono, intransigenti (Mc 3,17; cfr. Lc 9,54); essi possiedono anche un vero fuoco interiore: il fuoco della disponibilità a morire per Gesù, che porterà Giacomo, primo fra tutti gli apostoli, a subire il martirio (At 12,2) o quello dell’amore ardente e totale di Giovanni.

Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, ben consapevole delle fragilità e delle debolezze che li abitano e conscio del fatto che l’esperienza di luce a cui parteciperanno non trasformerà in modo automatico e immediato il loro cuore. Posando lo sguardo su di loro, tuttavia, egli già vede in essi la roccia su cui si stabilirà la sua Chiesa, il discepolo dell’amore, il testimone fedele, pronto a versare il suo sangue.

Se la trasfigurazione è esperienza di trasformazione interiore, grazie alla quale gli occhi dei discepoli possono contemplare nel Figlio il debordare dell’amore che lo abita e muta il suo corpo in luce, essa è anche la manifestazione di quanto già vede e compie lo sguardo di Gesù: uno sguardo in cui si anticipa ciò che i discepoli saranno, capace di operare la loro progressiva e lenta trasformazione nell’amore. Per questo sale sul monte con loro ed è con loro che si ritrova solo a scendere dal monte; è la loro compagnia che cerca nel Getsemani e per la loro testimonianza il Vangelo sarà proclamato a tutte le nazioni (Mc 13,10).

«Su un alto monte». La montagna nella cultura biblica rappresenta più che un luogo fisico uno teologico: il luogo sacro in cui Dio abita e da cui si rivela. È perciò il luogo della rivelazione, luogo dell’incontro tra Dio e l ’uomo. Mentre Matteo descrive il volto del Cristo, Marco si sofferma sulle vesti: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). Se la veste bianca indica un contatto particolare con Dio (cfr. Mc 16,5; At 1,10; Ap 7,9), la veste bianchissima indica la piena partecipazione di Gesù al mondo di Dio, la sua intimità con il Padre, la verità di un Amore che non può essere più contenuto.

«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù». Marco e Matteo non riportano l’oggetto della conversazione1, solo Luca lo precisa: «e parlavano del suo esodo che avrebbe avuto luogo in Gerusalemme» (Lc 9,30). In Marco e Matteo, Mosè ed Elia sono simbolo del cammino di Dio con il popolo testimoniato nella Tôrah (Mosè) ed attualizzato nella profezia (Elia).

Marco tace a riguardo dei sentimenti di Gesù, ma possiamo contemplare la trasfigurazione come il momento in cui il rapporto tra Gesù e il Padre diviene così intenso da non essere più contenibile. Il dialogo che Dio ha cominciato nei tempi antichi con Mosè, che i profeti hanno continuato e riacceso nei momenti di stanchezza del popolo, diviene ora permanente nel Figlio.

La tradizione identifica il monte alto con il Tabor: i racconti evangelici non ne ricordano il nome, ma può essere utile ricordare che molti popoli, fin dai tempi antichi, hanno sacrificato su questo monte: nella tradizione patristica viene chiamato un altare naturale che Dio si è creato. Su questo altare, preparato da Dio, il Figlio pronuncia il suo «Eccomi!» (cfr. Sal 40), esprimendo il «sì» definitivo dell’umanità al Padre.

«Maestro, è bello per noi stare qui, facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè ed una per Elia». L’intervento di Pietro, ci ricorda Marco, scaturisce dalla paura (Mc 9,6) e manifesta ancora una volta il «pensare secondo gli uomini» che Gesù gli ha rimproverato poco sopra in Mc 8,33 2. Infatti, si riferisce a Gesù con il titolo «Maestro», che nel secondo vangelo è segno di una fede non ancora matura. Costruendo le capanne, Pietro vuole fermare la storia, vuole interrompere il cammino che porta inevitabilmente a Gerusalemme. Il portavoce dei discepoli non comprende che la trasfigurazione non è il punto d’arrivo, ma un punto di passaggio per poter ritornare alla storia con una prospettiva nuova, con una speranza che – come Paolo afferma nella seconda lettura di oggi – permette di vivere tutto con lo sguardo fisso al volto di Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (Rm 8,32).

«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». La nube è segno della presenza di Dio, una presenza manifesta e contemporaneamente nascosta. La voce riprende la rivelazione del battesimo, ci sono però due differenze significative:

  • Mentre al Giordano la voce si era rivolta soltanto a Gesù – «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11) –, sul monte il Padre rivela ai discepoli l’identità di Gesù, un’identità che sarà confermata da un centurione pagano sul Calvario: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39; cfr. 9,7). Le parole del Padre offrono una mirabile sintesi dell’Antico Testamento (cfr. Sal 2; Is 42,1). Di particolare rilevanza per noi è il riferimento ad Isacco, il figlio amato che Abramo si appresta a sacrificare (cfr. Gen 22,1-14). Il monte alto, dunque, non è soltanto un altare per il Figlio, ma anche per il Padre: il Figlio offre se stesso al Padre, il Padre offre il Figlio all’umanità in un gesto d’amore totalmente gratuito.
  • La voce rivela come vivere il rapporto con lui: «Ascoltatelo». È importate ricordare che nella Scrittura il discepolo è definito come !colui che ascolta”. «Ascoltatelo» è, dunque, un invito a riprendere la sequela, a camminare con Gesù anche quando la luce della trasfigurazione sarà spenta e le tenebre avvolgeranno il Calvario. È un invito a lasciare che Gesù, la sua morte e risurrezione, diventino il centro dell’affettività e dell’esperienza del discepolo.

Come rispondere alla manifestazione di Dio?

Le parole del Padre sono un guanto di sfida alla logica troppo umana di Pietro: il Figlio non è un mistero da conservare, ma una persona da seguire. Come rispondere alla manifestazione di Dio? In Matteo i discepoli cadono con la faccia a terra e sono presi da gran timore (Mt 17,6), in Marco c’è una strana annotazione: «E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro» (Mc 9,8). I tre si ritrovano soli con Gesù. L’evangelista Marco conclude ricordandoci che Gesù, Messia e Figlio, è l ’unica Parola fatta carne, l’unica rivelazione del volto del Padre. In Marco mancano persino le parole incoraggianti di Gesù rivolte ai discepoli sconvolti come in Mt 17,7: «Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”».

Il silenzio con cui termina il racconto di Marco apre uno spazio per i discepoli di ogni generazione, spazio dove rinnovare la personale decisione a seguire Gesù sulla via della croce.


  1. La storia dell’interpretazione di questo versetto ha visto molti cimentarsi nel produrre un contenuto alla conversazione, con altalenanti fortune.
  2. «Gesù, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».

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