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Lieti annunciatori della gioia: Isaia 61

Come prima lettura in questa terza domenica di avvento dell’anno B ci viene offerto l’inizio e la fine del capitolo 61 di Isaia. Il capitolo appartiene alla terza parte del libro (capitoli 55 – 66): passata la luna di miele legata al ritorno degli esiliati da Babilonia, il popolo deve affrontare la fatica della ricostruzione personale e sociale, simbolizzata nella ricostruzione del tempio.

¹ Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, ² a promulgare l’anno di grazia del Signore.
¹⁰ Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli. ¹¹ Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti.

Al centro del brano proposto non c’è la promessa della restaurazione, ma il suo annuncio, come a dire che la restaurazione è possibile solamente se il popolo può credere in essa. Bisogna perciò che sia annunciata, proclamata da una “voce” consapevole di come il Signore agisce. Ecco quindi che il testo elabora il ruolo del profeta annunciatore, una sorta di banditore pubblico di come il Dio di Israele da ora in avanti agirà.

Questo personaggio anonimo, cosciente della presenza dello Spirito, si sente inviato a consolare, ad annunziare la liberazione a poveri, oppressi ed esiliati. La menzione dello Spirito indica la consapevolezza di una missione non contrassegnata da garanzie umane, ma divine. Soltanto Dio, infatti, può ricreare un popolo disperso e scoraggiato, aprendo orizzonti di speranza. I compiti che sono affidati a questo inviato possono essere riassunti con tre espressioni: portare il lieto messaggio ai miseri; promulgare l’anno di grazia del Signore; inviare a gioire nel Signore. Vediamoli in sequenza.

Il lieto annuncio ai miseri

Il profeta, ricolmo dello Spirito di Dio perché a lui consacrato, è mandato a «portare il lieto annuncio agli ꜥᵃnāwı̂m (= miseri)» (Is 61,1). Il termine ricorre poche volte nel libro di Isaia, ma è molto comune nella letteratura sapienziale, dove contraddistingue persone che vivono nella sofferenza fisica o morale, sfiduciati e oppressi: talora indica il mendicante.

Nel libro dei Proverbi è spesso contrapposto non a ricco, ma al violento. Ascoltando il proprio bisogno e rifiutando la violenza, l’uomo giusto riversa tutta la sua speranza in Dio, colui che ascolta il grido del povero (cfr. Sai 34,7; 86,1; 12,5). Il termine ꜥᵃnāwı̂m descrive in sintesi sia una realtà fisica, colui che soffre a causa dell’ingiustizia del fratello, sia un’attitudine spirituale, colui che ripone soltanto in Dio la propria fiducia.

I miseri sono dunque coloro che trasformano la loro angoscia in grido, coloro che cercano la vicinanza del Signore nella consapevolezza della sua presenza. Non sorprende che a quest’umanità Dio si riveli con un annuncio di gioia, che trasforma il tempo in un ‘anno di grazia’ donato da Dio.

L’anno di grazia per il Signore

Un ulteriore compiuto che spetta a questo testimone/profeta è proclamare «l’anno di grazia per il Signore (šᵉnaṯ-rāṣôn laYhwh). Il termine grazia (rāṣôn) indica lo sguardo favorevole di chi è potente, come il re (Pr 14,35) o Dio (Dt 33,16; Is 49,8). Nella tradizione di Israele anno di grazia si riferisce all’anno giubilare, l’anno del ritorno alla giustizia originaria, alla divisione della terra operata da Dio. L’esistenza dei poveri, dei senza terra, di chi è costretto a vendere se stesso per sopravvivere (Am 2,7) è frutto di violenza, è un ritorno alla situazione di schiavitù da cui Dio ha liberato il suo popolo: rappresenta, nella denuncia profetica, la negazione dell’esodo; il profeta Michea così denuncia: «Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono. Così opprimono l’uomo e la sua casa, il proprietario e la sua eredità» (Mi 2,2). In questa luce l’anno giubilare è anno di liberazione da ogni forma di schiavitù – la schiavitù fisica e la schiavitù del possesso – perché la terra possa essere ridistribuita fra tutti e ciascuno possa riappropriarsi della propria identità. La privazione della terra coincideva, infatti, con la privazione dell’identità civica e religiosa. All’anno di grazia corrisponde, tuttavia, un “giorno di retribuzione/vendetta” perché la realizzazione del piano del Signore passa anche attraverso la punizione degli ingiusti, degli oppressori.

Inno alla gioia nel Signore

La possibilità di annunciare l’intervento di Dio riempie il profeta di gioia, nonostante la drammaticità della situazione in cui vive: «Io gioisco pienamente nel Signore … » (v. 10). Per questo esulta come se il cambiamento si fosse già realizzato. La triplice ripetizione della radice ṣāmaḥ (germogliare; germoglio) nel v. 11 manifesta tuttavia la sua consapevolezza che i tempi nuovi sono soltanto all’inizio. Ma è un inizio “certo” perché affidato al Signore e garantito dalla sua fedeltà: «il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti».

All’annuncio profetico risponde il canto di Maria. Infatti, Magnifica le voci di generazioni di piccoli, poveri, timorati del Signore si fondono insieme per cantare una storia “redenta”. Nel grembo della giovane donna di Nazareth la salvezza si è fatta vicina e la redenzione sta per assumere un volto umano.

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