Dopo la solenne condanna del serpente, ecco le sentenze rivolte alla donna e all’uomo. Nel contesto letterario del racconto le parole divine sulla donna e sull’uomo non esprimono condanna e punizione, vogliono, invece, interpretare la «disarmonia» che oggettivamente si percepisce nelle relazioni fondamentali come conseguenze del peccato. Infatti né la donna né l’uomo vengono maledetti ma solamente il serpente (v. 14) e il suolo (v. 17); il giudizio divino sulla prima coppia dà voce alla disgregazione dei ruoli designati in Gen 2.
La sentenza sulla donna: Gen 3,16
La donna che era stata creata per essere l’aiuto, colei che sta di fronte all’uomo e la portatrice della vita (cf. 2,18.23-24), qui registra le due disarmonie più forti perché segnate da dolore e sofferenza. Il momento meraviglioso del parto, inizio della vita, è anche momento terribile e doloroso, carico di «pericolo» di morte: tale stridente dissonanza è emblema di un dramma in atto. Per questo spesso nel linguaggio biblico i dolori del parto sono adoperati come segno misterioso dell’intervento salvifico operato da Dio (cf. Is 26,17-19). Così pure la dimensione della relazione con l’uomo in quanto sposa è segnata dal dramma della violenza e della sottomissione 1. Come sfondo culturale vi sta quasi certamente l’antica concezione che la donna ha un appetito sessuale maggiore dell’uomo, motivo per cui essa diventa, quasi naturalmente, una seduttrice. Tutto ciò è conseguenza della trasgressione 2. Ecco allora che l’armonia originaria voluta da YHWH-Dio resta un profondo desiderio dell’umanità che vive storicamente il rapporto uomo-donna come dolorosamente caratterizzato da incomprensioni, lotte e predominio.
La sentenza sull’uomo: Gen 3,17-19
Il giudizio sull’uomo è il più lungo e il più articolato; per questo alcuni commentatori hanno suggerito che i tre versetti siano frutto di lavoro redazionale su testi più antichi. Westermann postula che la maledizione inizialmente sia espressa solo in 17b.19b. Tale nucleo si sarebbe poi espanso con i commenti di 17a e 18b. Infine 19c sarebbe un proverbio 3. La tesi è suggestiva ma rimaniamo sempre nel campo delle congetture.
La sentenza sull’uomo inizia con una proposizione causale («Poiché hai ascoltato…») che precede quella principale: si tratta di un modo tipico con cui la lingua ebraica esprime l’enfasi e la messa in evidenza. L’aver ascoltato la voce della moglie piuttosto che quella di YHWH-Dio si è rivelato per l’uomo un tragico errore. In questo contesto ascoltare la voce di… è una forma idiomatica che sta per obbedire (cf. 16,1; Es 18,24; 2Re 10,16). Il verbo «mangiare» (ʾākal) ricorre cinque volte nei tre versetti. La trasgressione dell’uomo è consistita nel mangiare il frutto proibito, di conseguenza la disarmonia si paleserà proprio in ciò che l’uomo produce e mangia: «Con dolore (ʿiṣṣāḇôn) ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita». La terminologia è simile a quella del versetto 16: come la donna soffre per il suo ruolo fondamentale di madre, così l’uomo sarà afflitto nel suo ruolo primario di coltivatore e produttore di cibo. La disarmonia non si esprime tanto nel lavoro — il verbo ʿāḇar non è utilizzato — quanto nella fatica e nel sudore.
Il secondo elemento disarmonico che emerge è legato al v. 19: «Finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». È ribadita la dimensione vera dell’uomo, il suo limite invalicabile, perché è tratto dalla polvere. Il verbo «ritornare» in ebraico šûḇ
in molti passi dell’AT esprime conversione, riconciliazione. Nel momento della morte verrà ricomposta quella frattura tra ʾādām e la ʾădmâ, quando la madre terra lo accoglierà. In questa prospettiva la morte, invalicabile confine, non è il prodotto del peccato (il termine môt
non c’è in 3,17-19) 4, anzi il nostro autore sembra supporre che la morte sia una dimensione che «da sempre» appartiene all’uomo (cf. 3,22 in relazione a 2,9). 5 La morte infatti è la forma estrema e radicale della creaturalità e del limite dell’uomo. È una esperienza che, una volta rotta la relazione con Dio, può essere vissuta in modo tragico perché vista come annientamento di ogni desiderio di felicità che superi i limiti del tempo (diventare «come Dio», appropriarsi dell’«albero della vita»). 6
Gen 20-22: Eva madre dei viventi
In perfetto parallelismo con Gen 2,18-25, qui l’uomo dà il nome alla propria compagna e ritorna il tema della nudità e dei vestiti.
Il dato dell’imposizione del nome è ambiguo. Infatti, da un lato, l’uomo in Gen 2,18-25 aveva dato un nome a tutto il bestiame, ma non alla donna, perché l’aveva riconosciuta uguale a sé (Gn 2,20.23). Ora invece le impone un altro nome, la sente distinta da sé e comincia a esercitare un dominio su di lei. 7 Dall’altro il nome che impone è Eva ḥawwâ, nome derivato dalla forma verbale ḥāyah
«vivere»: 8 evoca perciò la «vita» stessa e caratterizza la donna come madre, capace di trasmettere la vita. Al fatto negativo di imporre il nome si affianca però il valore positivo del nome, auspicio e speranza di benedizione: nonostante il peccato, Eva fu la prima regina madre.
Un segno decisamente positivo è il prendersi cura da parte di YHWH-Dio dell’uomo e della sua donna rivestendoli con «tuniche di pelli». Il vestire qualcuno ha una funzione protettiva ed è inoltre carica di simbologia legata alla posizione o al ruolo che uno può venire a ricoprire nella società. Il verbo usato è lāḇaš
alla forma hitpael. Si registra nell’AT un duplice uso:
-
l’intervento del re che fa rivestire un suddito per onorarlo (cf. Gen 41,42, l’azione del faraone nei confronti di Giuseppe e 1Sam 17,38),
-
il secondo indica l’azione dei sacerdoti che si vestono delle sacre vesti, come nel caso di Mosè (Es 28,4M 29,8; 40,4; Lv 8,13).
La terminologia del giardino ancora una volta richiama il culto (cf. l’uomo posto nel giardino per lavorarlo e custodirlo: Gen 2,15). Il gesto divino nei confronti di questa coppia disobbediente desta, come scrive Brueggemann, sorpresa: i trasgressori, destinati alla morte, non solo sono risparmiati ma pure rivestiti. Colui che mette alla prova è colui che alla fine provvede (3,21; cf. 22,1-14). 10
- Cf. Trible, The rhetoric of sexuality, posizione 2483- 2503; I.A. Busenitz, Woman’s Desire for Man: Genesis 3:16 Reconsidered, in Grace Theological Journal 7.2 (1986), 203-212.
- Gunkel, Genesis, 21-22, afferma che la condanna della donna nella sua vita sessuale corrisponde al suo peccato. Essa ha conosciuto il suo sesso mediante un peccato, così verrebbe condannata in quest’ambito. La posizione è discutibile. S. Foh, What Is the Woman’s Desire?, in WTJ 37 (1974), 376-383 afferma che la spinta della donna verso il marito non è di sudditanza sessuale ma di dominio su di lui. Tale interpretazione è suggerita sempre dal passo parallelo di Gen 4,7 dove qui è il peccato che spinge Caino, ma egli lo deve dominare. Nel contesto del VOA una tale interpretazione suona come anacronistica.
- Westermann, Genesis 1-11, 263-264.
- Cf. Hamilton, Genesis 1–17, posizione 3710; Wenham, Genesis 1-15, 83.
- Cf. Skinner, Genesi, 84; Westermann, Genesis 1-11, 266.
- Cf. Cappelletto, Genesi (1-11), 130.
- Cf. Trible, The rhetoric of sexuality, posizione 2594.
- Cf. BDB, 259b.
- Brueggemann, Genesi, 71-72.[Inote] L’uomo e la donna, dopo la disobbedienza, prendono consapevolezza della loro nudità, ma non sanno come gestirla, come farvi fronte. Neppure sono capaci di vestirsi a vicenda. La scena è altamente simbolica e carica di profezia: è il segno-promessa che YHWH-Dio non mancherà di prendersi ancora cura di loro. 9Cf. l’articolo di L. Mazzinghi, … e fece loro tuniche di pelli. La misericordia di Dio in Gn 3, in PSV 29 (1994), 11-23. Di parere opposto Wenham, Genesis 1-15, 84. Sul simbolismo delle vesti cf. E. Haulotte, Symbolique du vêtement selon la Bible (Théologie 65), Paris 1966.