HomeDonneDonna e uomo a giudizio: Gen 3,16-19

Donna e uomo a giudizio: Gen 3,16-19

Dopo la solenne condanna del serpente, ecco le sentenze rivolte alla donna e all’uomo. Nel contesto letterario del racconto le parole divine sulla donna e sull’uomo non esprimono condanna e punizione, vogliono, invece, interpretare la «disarmonia» che oggettivamente si percepisce nelle relazioni fondamentali come conseguenze del peccato. Infatti né la donna né l’uomo vengono maledetti ma solamente il serpente (v. 14) e il suolo (v. 17); il giudizio divino sulla prima coppia dà voce alla disgregazione dei ruoli designati in Gen 2.

La sentenza sulla donna: Gen 3,16

La donna che era stata creata per essere l’aiuto, colei che sta di fronte all’uomo e la portatrice della vita (cf. 2,18.23-24), qui registra le due disarmonie più forti perché segnate da dolore e sofferenza. Il momento meraviglioso del parto, inizio della vita, è anche momento terribile e doloroso, carico di «pericolo» di morte: tale stridente dissonanza è emblema di un dramma in atto. Per questo spesso nel linguaggio biblico i dolori del parto sono adoperati come segno misterioso dell’intervento salvifico operato da Dio (cf. Is 26,17-19). Così pure la dimensione della relazione con l’uomo in quanto sposa è segnata dal dramma della violenza e della sottomissione [note]Cf. Trible, The rhetoric of sexuality, posizione 2483- 2503; I.A. Busenitz, Woman’s Desire for Man: Genesis 3:16 Reconsidered, in Grace Theological Journal 7.2 (1986), 203-212.[/note]. Come sfondo culturale vi sta quasi certamente l’antica concezione che la donna ha un appetito sessuale maggiore dell’uomo, motivo per cui essa diventa, quasi naturalmente, una seduttrice. Tutto ciò è conseguenza della trasgressione [note]Gunkel, Genesis, 21-22, afferma che la condanna della donna nella sua vita sessuale corrisponde al suo peccato. Essa ha conosciuto il suo sesso mediante un peccato, così verrebbe condannata in quest’ambito. La posizione è discutibile. S. Foh, What Is the Woman’s Desire?, in WTJ 37 (1974), 376-383 afferma che la spinta della donna verso il marito non è di sudditanza sessuale ma di dominio su di lui. Tale interpretazione è suggerita sempre dal passo parallelo di Gen 4,7 dove qui è il peccato che spinge Caino, ma egli lo deve dominare. Nel contesto del VOA una tale interpretazione suona come anacronistica.[/note]. Ecco allora che l’armonia originaria voluta da YHWH-Dio resta un profondo desiderio dell’umanità che vive storicamente il rapporto uomo-donna come dolorosamente caratterizzato da incomprensioni, lotte e predominio.

La sentenza sull’uomo: Gen 3,17-19

Il giudizio sull’uomo è il più lungo e il più articolato; per questo alcuni commentatori hanno suggerito che i tre versetti siano frutto di lavoro redazionale su testi più antichi. Westermann postula che la maledizione inizialmente sia espressa solo in 17b.19b. Tale nucleo si sarebbe poi espanso con i commenti di 17a e 18b. Infine 19c sarebbe un proverbio [note]Westermann, Genesis 1-11, 263-264.[/note]. La tesi è suggestiva ma rimaniamo sempre nel campo delle congetture.

La sentenza sull’uomo inizia con una proposizione causale («Poiché hai ascoltato…») che precede quella principale: si tratta di un modo tipico con cui la lingua ebraica esprime l’enfasi e la messa in evidenza. L’aver ascoltato la voce della moglie piuttosto che quella di YHWH-Dio si è rivelato per l’uomo un tragico errore. In questo contesto ascoltare la voce di… è una forma idiomatica che sta per obbedire (cf. 16,1; Es 18,24; 2Re 10,16). Il verbo «mangiare» (ʾākal) ricorre cinque volte nei tre versetti. La trasgressione dell’uomo è consistita nel mangiare il frutto proibito, di conseguenza la disarmonia si paleserà proprio in ciò che l’uomo produce e mangia: «Con dolore (ʿiṣṣāḇôn) ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita». La terminologia è simile a quella del versetto 16: come la donna soffre per il suo ruolo fondamentale di madre, così l’uomo sarà afflitto nel suo ruolo primario di coltivatore e produttore di cibo. La disarmonia non si esprime tanto nel lavoro — il verbo ʿāḇar non è utilizzato — quanto nella fatica e nel sudore.

Il secondo elemento disarmonico che emerge è legato al v. 19: «Finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». È ribadita la dimensione vera dell’uomo, il suo limite invalicabile, perché è tratto dalla polvere. Il verbo «ritornare» in ebraico šûḇ
in molti passi dell’AT esprime conversione, riconciliazione. Nel momento della morte verrà ricomposta quella frattura tra ʾādām e la ʾădmâ, quando la madre terra lo accoglierà. In questa prospettiva la morte, invalicabile confine, non è il prodotto del peccato (il termine môt
non c’è in 3,17-19) [note]Cf. Hamilton, Genesis 1–17, posizione 3710; Wenham, Genesis 1-15, 83.[/note], anzi il nostro autore sembra supporre che la morte sia una dimensione che «da sempre» appartiene all’uomo (cf. 3,22 in relazione a 2,9). [note]Cf. Skinner, Genesi, 84; Westermann, Genesis 1-11, 266.[/note] La morte infatti è la forma estrema e radicale della creaturalità e del limite dell’uomo. È una esperienza che, una volta rotta la relazione con Dio, può essere vissuta in modo tragico perché vista come annientamento di ogni desiderio di felicità che superi i limiti del tempo (diventare «come Dio», appropriarsi dell’«albero della vita»). [note]Cf. Cappelletto, Genesi (1-11), 130.[/note]

Gen 20-22: Eva madre dei viventi

In perfetto parallelismo con Gen 2,18-25, qui l’uomo dà il nome alla propria compagna e ritorna il tema della nudità e dei vestiti.

Il dato dell’imposizione del nome è ambiguo. Infatti, da un lato, l’uomo in Gen 2,18-25 aveva dato un nome a tutto il bestiame, ma non alla donna, perché l’aveva riconosciuta uguale a sé (Gn 2,20.23). Ora invece le impone un altro nome, la sente distinta da sé e comincia a esercitare un dominio su di lei. [note]Cf. Trible, The rhetoric of sexuality, posizione 2594.[/note] Dall’altro il nome che impone è Eva ḥawwâ, nome derivato dalla forma verbale ḥāyah
«vivere»: [note]Cf. BDB, 259b.[/note] evoca perciò la «vita» stessa e caratterizza la donna come madre, capace di trasmettere la vita. Al fatto negativo di imporre il nome si affianca però il valore positivo del nome, auspicio e speranza di benedizione: nonostante il peccato, Eva fu la prima regina madre.

Un segno decisamente positivo è il prendersi cura da parte di YHWH-Dio dell’uomo e della sua donna rivestendoli con «tuniche di pelli». Il vestire qualcuno ha una funzione protettiva ed è inoltre carica di simbologia legata alla posizione o al ruolo che uno può venire a ricoprire nella società. Il verbo usato è lāḇaš
alla forma hitpael. Si registra nell’AT un duplice uso:

  • l’intervento del re che fa rivestire un suddito per onorarlo (cf. Gen 41,42, l’azione del faraone nei confronti di Giuseppe e 1Sam 17,38),
  • il secondo indica l’azione dei sacerdoti che si vestono delle sacre vesti, come nel caso di Mosè (Es 28,4M 29,8; 40,4; Lv 8,13).

La terminologia del giardino ancora una volta richiama il culto (cf. l’uomo posto nel giardino per lavorarlo e custodirlo: Gen 2,15). Il gesto divino nei confronti di questa coppia disobbediente desta, come scrive Brueggemann, sorpresa: i trasgressori, destinati alla morte, non solo sono risparmiati ma pure rivestiti. Colui che mette alla prova è colui che alla fine provvede (3,21; cf. 22,1-14). [note]Brueggemann, Genesi, 71-72.[Inote] L’uomo e la donna, dopo la disobbedienza, prendono consapevolezza della loro nudità, ma non sanno come gestirla, come farvi fronte. Neppure sono capaci di vestirsi a vicenda. La scena è altamente simbolica e carica di profezia: è il segno-promessa che YHWH-Dio non mancherà di prendersi ancora cura di loro. [note]Cf. l’articolo di L. Mazzinghi, … e fece loro tuniche di pelli. La misericordia di Dio in Gn 3, in PSV 29 (1994), 11-23. Di parere opposto Wenham, Genesis 1-15, 84. Sul simbolismo delle vesti cf. E. Haulotte, Symbolique du vêtement selon la Bible (Théologie 65), Paris 1966.[/note]

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