Infinita bontà di Dio

Sal 103

Il salmo 103 (vedi testo qui) canta la regalità del Signore, la cui natura più profonda Egli ha rivelato al monte Sinai. L’articolazione del canto poetico consta di tre parti: introito (vv. 1-5), corpo principale (vv. 6-18) e congedo (vv. 19-22).

L’«introito» di ben cinque versetti, pari a dieci stichi, apre con la doppia esortazione dell’orante alla propria «anima» (gola?) perché benedica il Signore (Yhwh) o il «suo santo nome» (šēm qoḏšô) che Egli ha rivelato nell’esodo (cfr. Es 34,6s.).

Le affermazioni dei vv. 3-5a (in ebraico sono una serie di participi) costituiscono una concreta illustrazione dei benefici del Signore menzionati nel v. 2b. Al v. 5b c’è una cesura dettata da un costrutto sintattico diverso; in esso si afferma l’effetto dell’agire del Signore: esso produce un rinnovamento (ringiovanimento) stupefacente.

Il v. 6 dà avvio alla parte centrare con una serie di participi di natura predicativa che hanno il compito di specificare l’azione salvifica del Signore, uno schierarsi con tutti gli oppressi – che in una certa misura risulta essere il tema della sezione centrale. L’aspetto sorprendente del salmo è che nello sviluppo del tema i nemici non sono esterni e l’oppressione non è di natura politico sociale, bensì essi sono interni e l’oppressione è quella dovuta al peccato commesso, per cui la liberazione è da nemici interni e dalla colpe personali. Nel salmo ci sono chiare allusioni al racconto del Sinai di Es 19 – 34; inoltre, si interpreta l’alleanza del Sinai come «nuova alleanza», cioè come «alleanza di rinnovamento.

Quanto alla sezione dei vv. 6-18, la sua struttura è chiara. Dopo l’enunciazione del tema e l’allusione al racconto del Sinai (vv. 6-7), seguono tre sotto unità di tre versetti ciascuna (la costruzione poetica è molto curata!): nei vv. 8-10 si offre una variante della «formula del Sinai»; nei vv. 11-13 ricorrono in combinazione fra loro tre similitudini relative all’«essere» di Dio, al centro delle quali si trova l’affermazione sul perdono dei peccati (v. 12b); nei vv. 14-16 lo sguardo si posa sull’uomo cogliendone tutta la vulnerabilità e la creaturalità; infine i vv. 17-18 riassumono la “teologia” che è stata sviluppata nella parte principale; compare qui anche il termine chiave «alleanza» (bᵉrı̂ṯ). Lungo tutto il corpo centrare del salmo affermazioni che hanno per soggetto il «noi» si sovrappongono ad altre su quelli che temono il Signore. Con questa pluralità di prospettive la parte centrali si stacca chiaramente dall’introito. Fanno da cornice tre parole chiave («fare, praticare», vv. 6a.18b; «opere di salvezza, operare la salvezza», vv. 6a.17b; «figli», vv. 7b.17b).

Col nome di Dio posto in prima posizione, il v. 19 avvia il «congedo», anch’esso di cinque versi, pari a dieci stichi. Esso riprende ed intensifica l’introito: l’intera corte celeste e tutte le opere del creato sono invitate a benedire il Signore (vv. 19-22); il v. 19b e il v. 22b con la parola chiave «dominare» formano una cornice.

L’ultimo rigo del salmo è letteralmente identico al primo: chi prega il salmo, lasciandosi trasformare dal suo annuncio, sperimenta, alzando gli occhi al Signore che perdona per benedirlo, come un “ringiovanire” della vita, quale Dio solo può donare.

Lettura del testo

Introito

Dopo il brevissimo titolo «di/per Davide» (lᵉdāwīd), il salmista, per ben due volte (vv. 1b-2), invita se stesso a benedire il Signore. Il termine nefeš, reso con «anima», ha come significato basilare «gola», per cui qui può alludere all’organo che presiede la voce e il canto. Secondo il verbo ebraico la lode si configura come una beraka, una «benedizione»: una testimonianza che rende gloria all’operare benefico di Dio. Infatti, la beraka consta di due elementi: adorazione del Signore in quanto vero Dio e ricordo delle sue gesta e opere (vv. 1b e 2b). Dal momento che spesso l’uomo è smemorato del bene ricevuto (cf. Sal 106, 21-22) il salmista insiste con se stesso perché ciò non accada: «Non dimenticare…» (wᵉʾal-tiškᵉḥi; cf. Sal 78,1-8; 102,19-23), espressione che richiama il «ricordare» del v. 18. I benefici da non dimenticare ma da ricordare sono qualificati dall’aggettivo «tutti» (kōl) perché sono senza numero (v. 2b).

Il salmista ne esemplifica alcuni, iniziando da quelli personali (vv. 3-5) e lo fa ricorrendo a cinque partecipi che hanno per soggetto Dio. Ebbene essi si possono considerare come altrettanti nomi divini: il Perdonante (hassōlēaḥ), il Guaritore (hārōp̱ēʾ), il Redentore ( haggôʾēl), il Coronante (hamꜥaṭṭᵉrēḵı̂) e il Saziante ( hammaśbiaꜥ).

La prima azione benefica riconosciuta a Dio – come il primo nome divino – è il perdono di «tutte le colpe» con chiaro riferimento a Es 34,9. Il termine ebraico ꜥāwôn designa sia il peccato come azione che distrugge la vita, sia il male che ne deriva per il peccatore. Il Signore perdona tutto questo e cioè: mette il colpevole davanti alla sua colpa perché Dio non è indifferente nei confronti del male: pronuncia un giudizio che non annienta il peccatore, ma lo stimola a rinunciare al sua atteggiamento distruttivo per sé e per gli altri («giudizio e non «verdetto»); fa sentire nel colpevole la sua sollecitudine e benevolenza, in modo che si avvii un processo di riconciliazione e di rinnovamento (perdono efficace).

L’evento profondamente coinvolgente della perdono dei peccati viene poi sviluppato nel salmo come «essenza» di quel Dio che ha stipulato l’alleanza al Sinai. Con il v. 3 il linguaggio si fa metaforico: il perdono dei peccati significa essere guariti da grave malattia (v. 3b); esser tirati fuori dalla fossa, cioè dalla tomba (v. 4a); essere adornati, cioè circondati da bontà e misericordia (v. 4b); essere saziati di ogni bene (v. 5b); ma soprattutto venire meravigliosamente «ringiovaniti», perché colui al quale il Signore perdona il peccato diventa un uomo nuovo1.

Il corpo centrale

Nei versetti 6-18 il salmista annuncia che la speranza e l’esperienza del perdono rinnovatore, così come lo descrive «l’anima» di chi l’ha sperimentato nei vv. 1-5, si radica nella grande rivelazione del Sinai, che sta «all’origine» d’Israele come “popolo dell’alleanza”. Mentre nella predicazione generale relativa a Dio del v. 6, che apre la parte principale e rende testimonianza al Signore come il Dio che aiuta «gli oppressi» a far valere i loro diritti, si potrebbe ancora vedere la liberazione dall’oppressione del faraone (quindi l’«inizio» dell’esodo), il v. 7 chiarisce che la vera liberazione d’Israele era ed è la liberazione dal gravame dei peccati e la promessa del «nuovo» patto del Sinai.

Mentre al v. 7 allude alla preghiera rivolta da Mosè a Dio dopo il peccato d’infedeltà del popolo (Es 32, il vitello d’oro): «Fammi conoscere le tue vie» (Es 33,13), ai vv. 8-10 il salmista cita la risposta data a questa preghiera di Mosè in Es 34,6-10. Lassù sul Sinai il Signore passa davanti a Mosè e gli illustra letteralmente le «sue vie», gridando il suo nome e definendolo con una serie di affermazioni:

«Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 34,6-7).

All’udire questa “autodefinizione” del Dio del Sinai, Mosè si prostra a terra e chiede il perdono dei peccati per il popolo:

«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità» (Es 34,9).

A questa preghiera il Signore risponde con la promessa dell’alleanza, che nel contesto di Es 19-34 va compresa come promessa del “rinnovamento” dell’alleanza, ossia come promessa della «nuova alleanza»: «Ecco, io stabilisco (di nuovo) un’alleanza…». Sullo sfondo del nostro salmo c’è tutto questo.

Nelle due sottosezioni dei vv. 11-13 e 14-16, la teologia del perdono dei peccati sperimentata dal popolo al Sinai, è ulteriormente rafforzata e giustificata, innanzitutto con i tre paragoni sull’essere del Signore che è profondamente «bontà» e «misericordia». La bontà di Dio è tanto grande quanto i cieli sono alti al di sopra della terra, perché il trono del Signore è stabilito nei cieli (vv. 11 e19). Dio può allontanare dal peccatore le sue trasgressioni tanto quanto l’oriente è lontano dall’occidente, perché il suo regno si estende su tutto (vv. 12 e 19). Infine, la relazione tra Dio e il suo popolo è di chiara natura paterna dove la misericordia ha sempre la meglio sulla collera (v. 13). Questi sono tutti modi per esprimere poeticamente uno dei punti fondamentali della teologia dei salmi: la salvezza del Signore è la manifestazione del regno del Signore nel mondo. Di conseguenza l’uomo non è il padrone del mondo. Egli appartiene alla terra perché dalla polvere è stato tratto (v. 14) ed è connotato non dalla potenza, ma bensì dalla caducità: è come l’erba e il fiore del campo (v. 15), destinato a non essere più (v. 16) quando soffia il vento. Ciò che rimane è solo la bontà di Dio che «da sempre e per sempre» (mēꜥôlām wᵉꜥaḏa-ꜥôlom) riversa su quelli che lo temono. Il timore del Signore è semplicemente venerazione praticata con fiducia e obbedienza. Chi prega il salmo ha la consapevolezza di essere un peccatore perdonato, per cui egli non è oggetto della bontà divina perché teme il Signore, ma teme il Signore perché è stato perdonato.

Il congedo

Ai vv. 19-22 l’orante, conscio del perdono ricevuto, dà ragione dell’azione di salvezza del Signore, fondandola sulla regalità primordiale del Dio creatore. La remissione dei peccati è l’atto fondamentale con cui il Signore «fissa» il suo dominio su tutto e ovunque.

La predicazione del regno di Dio in Gesù avrà unicamente solo questa misura.


  1. Nel v. 5b i poeta ricorre a un paragone che a noi non risulta del tutto comprensibile. Meno probabile è la spiegazione secondo cui il paragone si riferirebbe alla muta delle penne dell’aquila o del falco (già le versioni antiche nella loro ammirazione per il mondo greco occidentale si risolvono per l’«aquila»; «falco» è più preciso – anche se per noi quest’uccello ha perlopiù associazioni negative) vista come «ringiovanimento» (oppure come malattia e guarigione); più probabile è invece l’interpretazione che qui si alluda al volo rapido, potente, alto e semplicemente infaticabile del falco: mentre gli altri uccelli, stancandosi, camminano per terra, il falco si libra di continuo nell’aria (cfr. Is 40,27-31).

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