Il salmo è una preghiera con cui l’orante invoca il soccorso e la salvezza da Yhwh (v. 1) in un tempo in cui la malvagità la fa da padrona. Il mondo sembra solo popolato da empi. La stessa parola si è inceppata perché è diventata solamente veicolo di menzogna e falsità: si vive in un perenne sistema di parole false e falsate.
Al centro del salmo c’è una parola di Yhwh che sorge improvvisa (v. 6). Attorno ad essa ruotano tutti gli altri versetti in una struttura concentrica.
- A scomparsa dei giusti e dei fedeli tra i figli di Adamo (2-3);
- B parole menzognere (4-5);
- C oracolo divino (v. 6);
- B’ parole “pure” (7-8);
- A’ “zombi” tra i figli di Adamo (v. 9).
¹ Al maestro del coro. Sull’ottava. Salmo. Di Davide.
² Salva(mi), Yhwh! Non c’è più un uomo giusto;
sono scomparsi i fedeli tra i figli dell’uomo.
³ Si dicono menzogne l’uno all’altro,
labbra adulatrici parlano con cuore doppio.
⁴ Recida Yhwh le labbra adulatrici,
la lingua che vanta imprese grandiose,
⁵ quanti dicono: «Con la nostra lingua siamo forti,
le nostre labbra sono con noi:
chi sarà il nostro padrone?».
⁶ «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri,
ecco, mi alzerò — dice il Signore —;
metterò in salvo chi è disprezzato»1.
⁷ I detti di Yhwh sono detti pure,
argento separato dalle scorie nel crogiuolo,
raffinato sette volte.
⁸ Tu, o Yhwh, le manterrai,
ci proteggerai da questa gente, per sempre,
⁹ anche se attorno si aggirano i malvagi
e cresce la corruzione in mezzo agli uomini.
Un grido è lanciato oltre il cielo a Yhwh: «Salva, Yhwh!» (hôšiꜥâ v. 2). Non è specificato “chi” ha bisogno di essere salvato e “perché”. La versione greca dei Lxx ha sentito il bisogno di integrare il testo ebraico: «Salvami» (Sōson me). C’è probabilmente una ricercata volontà di genericità, perché le due proposizioni seguenti (v. 2b), introdotte dalla particella kî, sembrano suggerire che per il locutore non ci sia più nessuno da salvare. Se poi si considera l’imperativo di apertura sul modello del grido di Elia in 1Re 19,10: «Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita», allora esso testimonia la disperazione di chi non sa più che cosa fare o a chi rivolgersi, tanto è compressa la situazione in cui vive.
L’orante constata che i giusti e i «figli di Adamo» fedeli a Dio non solo sono una minoranza, ma si sono estinti. Scopriremo in seguito chi sono.
Nel mondo stravolto, l’orante passa a caratterizzare, nei vv. 3-5, chi resta, descrivendoli così: parlarono mentendosi l’uno all’altro (v. 3a); usano parole lusinghiere e adulatorie, ma hanno il cuore doppio (vv. 3b-4a); millantano imprese strabilianti (v. 4b); sono gente che va dicendo: «Con la nostra lingua siamo forti, le nostre labbra sono con noi» (5a); infine si vantano di non avere alcun “signore” (v. 5b). Per il salmista questa è gente che ha un’ottima padronanza delle parole e della lingua, ma ne fa un uso distorto: invece di far nascere e coltivare relazioni umane autentiche e liberatorie, con le parole asserviscono a se stessi gli altri, soprattutto i più deboli, svantaggiati e poveri. Infatti, non hanno altro “signore” che se stessi (v.b). Con le loro parole adulatrici si presentano come amici, ma covano nel cuore doppi fini. Per loro la parola è un mero strumento per acquisire potere, da utilizzare non al servizio degli altri ma per il proprio tornaconto. Quindi la comunicazione diventa un’arma potentissima per scalare le vette del potere.
Il salmista però non si lascia imbambolare dal canto di queste sirene, perché sa chi sono. Anzi, legge quanto dicono alla luce di quello che sono, tanto che si beffa di loro facendone il verso (v. 5).
Da quanto descritto dal salmista il lettore può farsi per antitesi un’idea abbastanza chiara di chi siano i giusti e i fedeli del v. 2: sono coloro che rinunciano all’inganno, all’ipocrisia e non hanno il cuore doppio; scelgono di non servirsi degli altri ma di servirli, facendolo con umiltà; nelle loro parole c’è un sincero desiderio di amare e di prendersi cura. È questo tipo di gente che sembra scarseggiare nel grido iniziale del salmista (v. 2a).
Al v. 6 con un cambio repentino di voce, prende la parola Yhwh. Non risponde direttamente alla supplica ma “alza” la sua voce per arginare le parole arroganti e sprezzanti pronunciate dai malvagi:«Con la nostra lingua siamo forti … chi sarà signore di noi?» (v. 5). In particolare la sua attenzione è rivolta a chi è stato disprezzato e azzerato dall’arroganza dei lestofanti. La frase finale del v. 6 è oscura ma la traduzione greca della settanta offre una interessante interpretazione: «Lo porrò in salvo, palerò con franchezza in lui» (Lxx 11,6). Per i traduttori greci Yhwh ridà la parola a chi è povero e indigente parlando in loro. In questo modo il Dio di Israele si mostra il vero Signore della Parola, quella che ha dato origine al mondo e all’uomo (cfr. Gen 1).
Dopo la decisione divina di prendere la parola e di schierarsi con chi non ha parola, sulla scena si fa avanti un’altra voce che prorompe in una acclamazione: «I detti di Yhwh sono detti puri» (v. 7). L’aggettivo «puro» (ṭahôr dal verbo ṭāhar «purificare») accanto a un significato legato al culto ne ha uno traslato per cui significa «schietto», «raffinato»2. Se in precedenza i lestofanti ricorrevano a parole menzognere per assicurarsi supremazia e potere, qui i detti di Yhwh sono schietti e cristallini. La metafora seguente dell’argento «separato dalle scorie» lo sottolinea ulteriormente. Yhwh non solo fa quello che dice, ma mantiene quanto ha detto (v. 8a): Egli non dice una cosa e ne fa un’altra e neppure parla con cuore doppio. Un esempio di parole divine “pure” sono quelle pronunciate in Gen 1: «Dio disse: “sia la luce” e la luce fu» (vedere anche Is 55,10-11)3.
Yhwh fa un ulteriore passo in avanti, perché protegge la comunità orante da quelli che vogliono, con la loro parola superba, pervertire l’ordine sociale. Da notare il contrasto tra «noi» del v. 5 e quello del v. 8: i primi sono centrati solo su se stessi, sono signori a se stessi; i secondi, invece, poggiano tutto su Yhwh, Signore del mondo e della parola che lo ha creato.
Al termine del salmo lo sguardo dell’orante si volge nuovamente sui malvagi (v. 9). Sono ritratti come “zombi” che si aggirano nel vuoto, alla ricerca di assicurarsi nuovamente il “potere” sui figli di Adamo sempre con la stessa tecnica: la perversione della parola. Non c’è però ragione di temere, perché l’oracolo divino è stato pronunciato: «Mi alzerò» e la parola di Yhwh rimane per sempre.
- La frase finale del v. è oscura: «Porrò in salvo colui su cui si soffia su di lui». Sulla base di un testo ugaritico è possibile tradurre: «Metterò in salvo la testimonianza in loro favore». Altra soluzione è questa: «Metterò in salvo colui che [lo] desidera». In questo caso la forma verbale yāp̱iḥa è un imperfetto hifil del verbo p̱āwaḥ «anelare, bramare»; la frase yāp̱iḥa lô è una proposizione relativa a cui manca il pronome relativo ʾᵃšer, cioè è una proposizione asindetica (cfr. Joüon, § 158b). ↩
- Cfr. GLAT III, coll. 360. ↩
- Ecco il testo: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata». ↩