Il grido iniziale: «In Yhwh (= Signore*) mi sono rifugiato» contrassegna il tema di tutto il salmo. Dal salmista Dio è percepito come protezione e aiuto. La composizione è registrata sulle corde della supplica individuale, dove due sono le immagini salienti: il «rifugio» e lo «sguardo». Il tempio, i monti, lo stesso Yhwh sono un rifugio per l’uomo giusto e retto; mentre l’ombra garantisce apparentemente l’immunità ai malvagi. Infatti, la contrapposizione tra lo sguardo dei malvagi, appostati nell’oscurità, e quello di Dio, che sovrasta tutta la terra, segna una vittoria di quest’ultimo, tanto che il cuore degli uomini retti può raggiungere il volto di Dio.
La traduzione che propongo di seguito si rifà alla versione della CEI 2008 con due modifiche. La prima riguarda il tetragamma sacro del nome di Dio, Yhwh, che mantengo anche nel testo italiano. La seconda è la scelta di una maggiore fedeltà al testo originale, per cui le espressioni «anima/spirito mia/o» e «anima/spirito sua/o» rendono letteralmente l’espressione ebraica.
¹ Al maestro del coro. Di Davide.
In Yhwh (= Signore) mi sono rifugiato.
Come potete dire all’anima mia:
«Fuggi [anima mia] come un passero verso il monte»?
² Ecco, i malvagi tendono l’arco,
aggiustano la freccia sulla corda
per colpire nell’ombra i retti di cuore.
³ Quando sono scosse le fondamenta,
il giusto che cosa può fare?
⁴ Ma Yhwh sta nel suo tempio santo,
Yhwh ha il trono nei cieli.
I suoi occhi osservano attenti,
le sue pupille scrutano l’uomo.
⁵ Yhwh scruta giusti e malvagi,
la sua anima odia chi ama la violenza.
⁶ Brace, fuoco e zolfo farà piovere sui malvagi;
vento bruciante toccherà loro in sorte.
⁷ Giusto è Yhwh, ama le cose giuste;
gli uomini retti contempleranno il suo volto.
La sovrascritta (v. 1a) è composta di solo due elementi1 così come nei salmi 14 e 15, perché manca il termine «salmo» (mizmôr). L’orante in apertura confessa la sua totale fiducia in Yhwh percepito come rifugio sicuro. La seconda parte del v. 1 è un po’ complicata per due ragioni. Il verbo «dire» è alla seconda persona plurale, per cui ci si chiede chi siano questi voi: degli amici dell’orante o dei nemici? Lo invitano a fuggire per mettersi in salvo oppure per sbarazzarsi di lui?
Nel discorso diretto che segue il testo ebraico ha un imperativo di seconda persona plurale («fuggite»), ma quasi tutte le versioni lo rendono al singolare: «Fuggi…». Da notare, però, che il testo masoretico suggerisce di leggere il qeré, il quale ha chiaramente una desinenza femminile di seconda persona singolare. Essa può essere spiegata dal fatto che il soggetto dell’imperativo è il sostantivo femminile nefeš, da qui il senso: «Fuggi [anima mia]…»2.
La fuga alla ricerca di un rifugio sicuro è motivata dal caos descritto nei vv. 2-33. Gli avversari sono una seria minaccia per l’orante, in quanto agiscono nell’oscurità spiando e colpendo i «retti di cuore». Non hanno volto nelle parole del salmista e per questo fanno ancora più paura.
Non solo chi prega è minacciato, ma il decadimento coinvolge l’intero sistema sociale che sembra avere perso i suoi punti di riferimento, rappresentati dalle «fondamenta» (v. 3): l’ordine sociale si è tramutato in caos.
Davanti a tutto questo la domanda angosciata dell’orante: «il giusto che cosa può fare?» (v. 3b). È una domanda, ma nello stesso tempo è anche una richiesta di intervento, rivolta a Colui che è il fondamento del mondo e della società.
Non c’è molto da attendere per la risposta che arriva ai vv. 4-5. Per prima cosa chi prega nel salmo professa la presenza di Yhwh nel «tempio» (hêḵol), qualificato come luogo «della sua santità» (cfr. Sal 5,8), e nei cieli raffigurati come il suo trono. Come il «nome» e la «gloria», la «santità» (qōḏeš) di Yhwh è una realtà concreta, visibile nella sua oscurità. È una manifestazione “sensibile” della divinità. Il tempio è santo non perché custodisce Yhwh stesso, ma in quanto segno visibile della sua grazia invisibile, insieme vicino e lontano, il mysterium tremendum della Presenza.
Se il tempio è segno della santità di Yhwh, i cieli sono rappresentati come il suo trono (v. 4a). Questo modo di parlare afferma semplicemente che Dio li trascende. È un modo di rappresentare l’alterità divina. Ciononostante essa non preclude a Yhwh di conoscere la sua creazione. Anzi Dio guarda dai cieli e osservare tutta la terra (v. 4a). Di conseguenza non c’è luogo che possa sottrarsi al suo sguardo. Neppure i figli dell’uomo posso nascondersi ai suoi occhi (v. 4b)4. Lo sguardo divino penetra le loro intimità più recondite e quindi sa chi è giusto e chi è empio e «amante della violenza» (v. 5b). Un buon commento al v. 5 è quanto afferma l’evangelista Marco di Gesù quando i suoi interlocutori si scandalizzano del perdono concesso al paralitico: «E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore?» (Mc 2,8).
Questa profonda conoscenza di Yhwh del cuore di ogni uomo è la ragione della separazione tra giusti ed empi. Dio «odia» (śānēʾ) chi ama la violenza (v. 5b). Siamo davanti a uno dei rari casi in cui il verbo «odiare» ha per soggetto Dio. Nel suo stesso essere («la sua anima»), al suo livello più profondo, Yhwh detesta coloro che amano la brutalità. La giustapposizione dei due verbi – «odiare» (śānēʾ) e «amare» (ʾahēḇ) – sottolinea l’orrore del dramma in gioco: dove c’è Dio non ci può essere violenza, dove c’è violenza non c’è Dio!
Al v. 6 per gli empi e per chi ama la violenza si annuncia un giudizio simile a quello che era stato riservato a Sodoma e a Gomorra (Gen 19,24). Probabilmente c’è pure un’allusione all’annientamento di Gog e delle sue schiere (cfr. Ez 38,22). Il fuoco e il vento infuocato del deserto sono simboli di una pena definitiva e non solo di un castigo temporaneo (cfr. Os 13,15; Is 21,1).
Il salmo si conclude con una ripetizione più estesa e profonda del motivo iniziale (v. 7 e v. 1a). Il rifugio offerto da Yhwh sarà un giorno illuminato dalla contemplazione del suo volto. Le due immagini iniziali, quella del rifugio e dello sguardo, nel versetto conclusivo si fondono, tanto che contemplare il volto di Dio è il rifugio e rifugiarsi in Dio è contemplare il suo volto. C’è poi un allargamento perché a contemplare il volto sono tutti gli uomini retti. Il verbo «contemplare» è al plurale (yeḥᵉzû) e il suo significato è quello di uno sguardo intenso e duraturo su una persona o su un oggetto. Di conseguenza la speranza che anima il salmista e chi egli rappresenta è il frutto di una profonda e radicata comunione con Dio.
Nell’antico testamento vedere il volto di Yhwh era il desiderio di ogni fedele, lo stesso Mosè lo aveva espresso, ma esso è stato sempre inaccessibile (cfr. Es 33,20; vedi anche Gen 32,30; Es 33,11). L’espressione poi ha assunto un significato cultuale perché indicava l’accesso all’altare di Dio presente nel tempio, luogo dal quale Yhwh dispensava il dono della vita, come bene illustra la benedizione di Aronne in Nm 6,24-26:
Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace.
In questo modo Yhwh guarda l’umanità e, a sua volta, gli uomini dal cuore retto hanno il privilegio di guardare il suo volto. Il tempio diventa quindi il luogo dell’incontro faccia a faccia che è ragione di speranza. È significativo che il guardare di Yhwh al v. 4 e quello «di coloro che amano la rettitudine» al v. 7 siano espressi con lo stesso verbo ḥāzâh. Il faccia a faccia è per i giusti, minacciati dai malvagi, dono e fonte di serenità e di speranza.
Se il tempio come rifugio può essere una metafora, per il salmista il Dio che abita i cieli è una realtà che offre la sua presenza-aiuto direttamente ai giusti, sebbene in modo mediato. Non c’è da stupirsi che la comunità del tempio sia felice quando afferma: «Andremo alla casa del Signore!» (Sal 122,1).
La casa del Signore, luogo sacramentale della sua presenza, è un antidoto contro tutti i poteri della morte. Nel salmo l’orante si trova certamente di fronte a una situazione di rischio e quindi di ansia; non può farcela da solo, ma si rifiuta coraggiosamente di scappare. È proprio il ricorso a Yhwh – nominato nel salmo per 5 volte – che gli dà la forza di restare, invece di fuggire o di non soccombere alla disperazione. Il salmista fa appello alla forza resiliente presente nel tempio, centro della sua comunità. Alla fine non è deluso perché la stessa fedeltà di Yhwh gli permette di deliziarsi alla sua presenza.
- lamnaṣṣēaḥ = al maestro; lᵉḏāwiḏ = di Davide. ↩
- C’è stato il tentativo di leggere nella desinenza femminile un invito a fuggire rivolto ad una donna, ma credo che la spiegazione data sia la più semplice perché dedotta dal testo. ↩
- Ciascun versetto è introdotto dalla particella causale kî. ↩
- Il testo ebraico impiega il termine pupille/palpabre, usa una parte per il tutto. ↩