Introduzione
Che cos’è l’uomo? È la grande domanda che, come un brivido lungo la schiena, corre per l’intero Salmo 8. Essa non è il risultato di una crisi esistenziale o di mancanza di senso, piuttosto è il frutto di un grido, stupito e riconoscente, di un uomo (cfr. il corpo del salmo), fatto proprio da una comunità credente (cfr. ritornello).
È un grido che sgorga davanti alla meravigliosa esperienza che il “mistero” dell’uomo si salda con quello di Dio, in particolare con il suo nome. Di conseguenza la riflessione del salmista sull’uomo non è modellata su quella filosofica, ma si esprime nella forma di un inno al Signore (Yhwh): nella Bibbia quando l’uomo parla di sé, parla di ciò che Dio ha fatto e continua a fare in lui e per lui; ma vale anche l’esatto contrario: quando la Scrittura parla di Dio e del suo santissimo nome, parla dell’uomo.
Difficoltà e traduzione
Se nella traduzione italiana il testo scorre liscio, non è così nell’originale ebraico. Tra i versetti 2 e 3 c’è una difficoltà, perché il passo è monco, forse corrotto e nonostante le molte ipotesi avanzate l’incertezza continua a regnare tra gli esperti. Per chi vuole approfondire rimando alla nota in calce1. Qui di seguito propongo una traduzione un po’ diversa da quella ufficiale della CEI, ispirandomi alla proposta del compianto esegeta tedesco Zenger.
¹ Al maestro del coro. Su “I torchi”. Salmo. Di Davide.
²ª O Signore, Signore nostro,
quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
ᵇ Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza.
³ª Con la bocca di bambini e di lattanti
hai posto una difesa contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
⁴ Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
⁵ che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
⁶ Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato.
⁷ Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi:
⁸ tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
⁹ gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari.
¹⁰ O Signore, Signore nostro,
quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Protagonista assoluto del salmo è Dio e il suo nome, soggetto della maggior parte dei verbi; l’uomo è la sua principale controparte. L’andamento del Salmo inizia con un’invocazione, con una esclamazione di meraviglia e con una lode della comunità dei “piccoli” (vv. 2-3); prosegue con un inno notturno cantato da un meravigliato orante (vv. 4-9); è concluso dal canto della comunità dei fedeli (v. 10).
vv. 2-3 il nome divino
Pur trattandosi di un inno il salmo rinuncia alla tradizionale acclamazione di lode per sostituirla con un’invocazione (v. 2a), seguita da un’esclamazione e da una lode diretta a Dio da parte della comunità di fede. Oggetto dell’invocazione è Dio ma soprattutto il suo nome. La teologia del nome domina dall’inizio alla fine tanto che ripetuta in forma di ritornello (cfr. v. 10). Il titolo divino Yhwh, reso con Signore in italiano, significa “Colui che fa essere” (cfr. Es 3,15-16). È l’ineffabile “nome” che presiede alla vocazione di Mosè nella scena del roveto ardente (cfr. Sal 7,18). Il nome è carico di una pregnanza “numinosa” che non può essere invocata a cuor leggere come ben sottolinea il secondo comandamento (Es 20,7 e la lista dei comandamenti della Chiesa cattolica).
Secondo la traduzione proposta, al v. 2b la voce di un singolo orante, rappresentativa di tutte le voci, loda Dio in prima persona. La sua ripresa è giustificata dal fatto che Dio ha un nome potente su tutta la terra. In modo sorprendente tale potenza non è dimostrata da eserciti, armi o da poteri economici e massmediatici, ma dalla «la bocca dei bimbi e dei lattanti» (v. 3). È una difesa che da un lato protegge «i bambini e i lattanti» e dall’altro conduce al fallimento «gli avversari di Dio». A commento del versetto calzano bene le seguenti parole di san Paolo: «Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,25).
È interessante chiedersi chi siano questi «bambini e lattanti». Se ad una lettura di superficie si può pensare a bambini piccoli o neonati, il cui primo vagito rimanda al Dio creatore, l’antitesi presente nel v. 3 tra bambini e avversari spiana la strada a una interpretazione metaforica dell’espressione «bambini e lattanti»: è un’allusione al popolo di Dio, sofferente, deriso e oppresso. Ad avvalorare tale interpretazione c’è il libro delle Lamentazioni, dove Sion-Gerusalemme impersona la madre (cf. anche Is 49,20-23; 54,1-6.13; 66,8-11; Sal 81) che è in lutto e piange per i figli uccisi o deportati in esilio (Lam 1,16). Se le cose stanno così, allora la metafora esprime l’essere alle mercé di qualcuno oppure la totale mancanza di valore. Il popolo eletto è diventato giocattolo di forze politiche a lui superiori, esperite come «nemici bramosi di vendetta» (cf. Lam 1,15-16; 2,16-19; 3,60).
La meraviglia del v. 3 è che Dio stesso ha messo un argine a tale deriva: il nome santo di Yhwh, posto sulla bocca degli indifesi di allora e di sempre come loro difesa. Il v. 3 condensa l’esperienza di Pr 18.10: «Una torre salda è il nome di Yhwh, là si affretta il giusto ed è al riparo»; oppure quella del Sal 20,8: «Gli uni sono forti per i carri, gli altri per i cavalli da guerra, ma noi siamo forti per il nome del nostro Dio Yhwh» (cf. similmente Sal 118,10-14). Dov’è invocato il nome di Yhwh, i nemici devono indietreggiare (Sal 56,10).
Martin Buber fa notare che il nome di Dio non è per prima cosa sinonimo di successo e potere, ma di solidarietà con coloro che si sentono e lo sono abbandonati e soli. Il fatto che i sofferenti e gli emarginati di tutti i tempi invochino Yhwh come loro alleato è la prova paradossale di quanto possa essere potente il suo nome sulla terra, una potenza che neppure la morte può sgretolare.
Di conseguenza la preghiera di lamento, presente nei salmi precedenti (cfr. Sal 3 – 7) o persino la lode dei sofferenti sono la testimonianza della volontà divina di mantenere nell’esistenza il piccolo e fragile figlio di Adamo.
vv. 4-9 inno notturno
Tutto è ambientato di notte, probabilmente sotto un firmamento luminoso. La mente dell’orante corre tra l’infinito di Dio e il finito dell’uomo.
vv. 4-5 la “visita” di Dio
Con un apparente cambio di registro ma in profonda sintonia con quanto precede, i vv. 4 e 5 danno voce a tutto lo stupore di un uomo che, davanti all’immensità del creato, in particolare del cielo stellato (basti pensare alla via Lattea), si sente piccolo e fragile e ciononostante è oggetto dell’attenzione e del ricordo di Dio creatore. La potenza di Dio si fa prossimità di ricordo e di visita.
Al v. 5 il sostantivo ʾᵉnôš, uomo, rimanda alla radice verbale ʾānaš che significa essere debole; c’è quindi un riferimento alla precarietà dell’uomo, al suo essere come l’erba del campo che oggi c’è e domani secca (cfr. Is 40,6-7). Invece lo stato costrutto ḇen-ʾāḏām, figlio di Adam, reso in italiano con «figlio dell’uomo», allude alla figura del progenitore genesiaco che volendo essere come Dio, si ritrova invece a fare i conti con la sua nudità.
Stupisce il poeta il fatto che il Dio creatore mostri tutta la sua attenzione verso questa sua fragile creatura. Sono utilizzati il verbo zāḵar, «ricordare» e pāqaḏ, «visitare» o «curare». Nel libro della Genesi quando Dio si ricorda, cessa il diluvio, e in Es 2,24 ha inizio l’azione di liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Il secondo verbo (pāqaḏ), con soggetto Dio, esprime tutta la sua sollecitudine: in Gen 21,1.2 quando Dio “visita” Sara, questa rimane in cinta, così avviene anche con Anna, la mamma di Samuele in 1Sam 2,21; nelle parole di Giuseppe di Gen 50,24.25 quando Dio “visiterà” il popolo in Egitto esso potrà ritornare nella terra dei Padri.
vv. 6-7 la grandezza dell’uomo
Al v. 6 il fare memoria e il visitare da parte di Dio diventano la vera ragione della grandezza dell’uomo. L’espressione letterale di 6a è molto eloquente: «E facesti mancare lui di poco rispetto agli ʾᵉlōhim (dei)». Detto in altre parole all’uomo gli è mancato un soffio per essere come Dio. La traduzione greca legge il termine ʾᵉlōhim come nome proprio di Dio e non come plurale e quindi preferisce sostituirlo con angeli (cfr. Eb 2,5.7).
Probabilmente il salmista poeta aveva in mente l’antico mito dell’assemblea celeste, un’entità certamente collettiva. In mezzo ad esse Yhwh sedeva assiso su un trono regale (cfr. 1Re 22,19; Gb 1,6; Is 6,1-3). Come tutti i membri dell’assemblea celeste, l’uomo è coronato di gloria e di magnificenza (cfr. Sal 21,6; 96,6; 104,1; 111,3).
Si è ipotizzato che l’uomo di cui parla il Sal 8 non sia l’essere terrestre, quello della quotidianità, ma l’uomo primordiale, quello precedente la caduto: un uomo immacolato e non maledetto. Altre ipotesi lo identificano con il sacro monarca che apparirà alla fine dei tempi; è quindi l’Unto o il Messia. Tali suggestioni potrebbero anche essere vere, tuttavia l’immagine dell’uomo, proiettata dal salmo, non è molto distante da quella dei maestri sapienziali che stanno dietro le pagine genesiache della creazione (Gen 1,1-2,3; 2,4-3,24): l’uomo è stato fatto a “immagine” di Elohim e a “somiglianza” di Dio (Gen 1,26), ma non è un essere divino: è stato plasmato dalla polvere della terra prima di ricevere l’alito di vita (Gen 1,26). 2,7), e occupa una posizione unica ma anche di responsabilità: il suo dominio sulla terra non potrà mai scadere in abuso.
vv. 8-9 un mite dominio
A questo essere, di poco inferiore agli dei, sono affidati, in una progressione a cerchi concentrici, tutti gli animali: prima quelli domestici, poi quelli selvaggi, gli uccelli del cielo fino ai pesci. Al v. 9b forse c’è una allusione ai mostri marini, rappresentazione delle forze caotiche del mare e della morte (cf. soprattutto Leviatano e Behemot in Gb 40,15 – 41,26, Tannin e Rahab in Is 51,9 e i mostri marini in Gio 2,1-11). Se in Egitto, in Fenicia e nella Mesopotamia si erano divinizzati gli animali, le costellazioni, il sole e la luna, la terra e il mare, il salmista rende onore ed esalta l’umanità sulle altre specie animali. C’è quindi una presa di distanza rispetto alle culture religiose coeve. Il verbo del “dominio” è māšal, che esprime innanzitutto la cura sollecita che un pastore ha per gli animali che gli sono affidati. Quindi il verbo non sottolinea tanto la dimensione della potere su qualcuno o qualcosa così da poterne disporre a proprio piacimento, ma quello della responsabilità e della cura. Inoltre si tratta di un potere vicario in quanto non è frutto della conquista dell’uomo, ma dono e concessione in amministrazione di Dio, l’unico che può definire l’universo «opere delle tue mani» (v. 7a).
Ritornello finale
Si ripete verbatim il ritornello iniziale, destinato ad essere cantato. Se pur identico esso però accresce il suo significato alla luce di quanto contemplato. La teologia del nome non è solo contemplazione di quanto grande e onnipotente è Dio, ma si traduce in una azione concreta nei confronti del mondo e dell’uomo. Il nome divino, Yhwh colui che è e fa essere, svela l’uomo all’uomo: da un lato è un essere minuscolo e infermo, se messo a confronto con l’immensità del cosmo e addirittura corrotto in quanto della stirpe di Caino, dall’altro è stato fatto poco meno della divinità e quindi ha potere sul mondo creato. Tale potere però è sempre subordinato a quello del creatore con esso ha la possibilità di relazionarsi. Dio gli ha fatto D’altra parte, Dio gli ha fatto mancare “solo un po’” di divinità. Il salmo lo situa su un preciso e pericoloso equilibrio tra “divinità” e “bestialità”. Eppure danza sul vuoto.
- Si sono fatte molte ipotesi ma regna ancora l’incertezza. La difficoltà consiste nel fatto che in una frase relativa c’è un imperativo. Ecco una traduzione letterale:
Su tutta la terra, il quale/la quale (אֲשֶׁ֥ר) dà (תְּנָ֥ה) dunque il tuo splendore.
Per avere un testo comprensibile c’è bisogno di apportare qualche cambiamento. Le ipotesi si possono sostanzialmente ridurre a due gruppi.
Il primo modifica solo l’imperativo da tᵉnâ a nātᵉnâ, «ha dato, ha mostrato», da cui la traduzione:
… quanto è potente su tutta la terra il tuo nome, che riflette il tuo splendore celeste.
La seconda, ripresa della traduzione della CEI, cambia sia la particella relativa «il quale» sia l’imperativo, ottenendo la traduzione proposta:
sulla terra. Voglio cantare la tua maestà celeste con bocca dei bambini e dei lattanti. ↩