Luce delle nazioni, speranza di ogni uomo

Is 49,1-6

La seconda domenica del tempo ordinario ha, come prima lettura, il secondo Canto del servo con alcune omissioni. Per facilitarne la comprensione commenterò l’intero canto, composto dai primi sei versetti del capitolo 49 di Isaia.

¹ Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. ² Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita,
mi ha riposto nella sua faretra.
³ Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
⁴ Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».
⁵ Ora ha parlato il Signore,
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele
– poiché ero stato onorato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
⁶ e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra».

Intorno al testo c’è stata molta discussione perché il servo si presenta in prima persona. Qui si direbbe che il problema dell’identificazione del misterioso personaggio sia semplice, o addirittura risolta1, visto che nel v. 3 egli è espressamente identificato con Israele: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Tuttavia, le cose non sono così facili: primo, perché nel Secondo Isaia (Is 40 – 56) Israele compare sempre in coppia con il termine Giacobbe, eccetto qui, e questo genera una certa perplessità; secondo, perché nei versetti 5 e 6 il servo viene investito di una missione che ha come destinatario il popolo stesso, cioè ha il compito di ricondurre a Dio Israele.

I grandi commentatori ebraici medievali hanno sempre identificato la figura del servo in questo passo con quella dello stesso profeta, (il secondo) Isaia. Perciò, qui si parla della missione del servo verso Israele o, più precisamente, di un momento di crisi di questa missione. Un momento di crisi e di scoraggiamento che è il preludio di una riconferma, anzi di un allargamento della missione del servo che coinvolgerà le isole lontane e tutte le nazioni. C’è una nuova comprensione del significato del servizio/ministero che il servo sarà chiamato a svolgere.

Il primo versetto ricorda da vicino la vocazione del profeta Geremia (Ger 1,5), ed è la testimonianza di una coscienza religiosa molto profonda: la vocazione precede la consapevolezza che se ne ha. Siamo scelti, quando ancora siamo incapaci di rendercene conto. Non solo, ma per l’autore del canto addirittura prima di essere creati. Non è vero, infatti, che noi siamo creati e poi, in qualche misura, anche chiamati, come se la vocazione fosse un di più, un’aggiunta. Al contrario, prima siamo chiamati, e poi creati.

La vocazione è costitutiva del nostro essere creature: nessuna creatura è priva di un nome, vale a dire di una vocazione (cfr. Is 40,26). Questo essere chiamati per nome, il Secondo Isaia lo applica a tutto Israele, in Is 43,1, e perfino al re straniero e persiano Ciro, in Is 45,4. Di per sé, il profeta applica le stesse immagini a figure diverse. Ma qui, di chi è il nome che viene pronunciato? Per il commentatore ebreo Rashi è il nome del profeta2.

Passando al v. 2 le immagini della spada tagliente e della freccia appuntita sono, in apparenza, di castigo più che di consolazione. La spada e la freccia colpiscono, feriscono. Però fa parte delle immagini anche il nascondimento, l’essere riposte nel fodero o nella faretra: vuol dire che il Signore ha taciuto a lungo (cfr. Is 42,14), ma ormai la sua Parola non può più essere trattenuta ed è questa: «Mio servo tu sei, Israele» (49,3).

Se si tratta del profeta, come può essere chiamato Israele? Per i commentatori moderni, questa è una difficoltà quasi insormontabile, ma per gli interpreti ebrei la spiegazione è semplicissima. Ibn Ezra offre due possibilità:

a) «Il servo è detto Israele, perché è della stirpe d’Israele», e su questo non ci sono dubbi;

b) «Tu (= servo) sei Israele perché sei considerato ai miei occhi come tutto Israele, e questa è l’interpretazione più giusta». Ciò significa che il servo è il profeta, sì, ma il profeta rappresenta tutto Israele!

Al v. 4 c’è il lamento del profeta, cui sembra di non aver concluso niente, di essersi affannato inutilmente, di non essere riuscito a convincere i suoi connazionali in esilio dell’imminente azione di salvezza di Dio. È il senso di fallimento che prima o poi accompagna ogni missione, ogni grande impresa. È quella crisi necessaria che porta a scendere fino al fondo delle cose: quell’andare a scoprire che ci possono essere nuove prospettive, impensate precedentemente e quindi imprevedibili, ma per questo capaci di aprire il futuro alla speranza.

Il v. 5 Mette bene a fuoco l’obiettivo della missione del profeta/servo: annunciare agli esiliati il ritorno di Dio in Sion. Sion era la parte alta della città di Gerusalemme, dove c’era la reggia del re e il tempio. Qui si cita una parte per il tutto, quindi Sion è Gerusalemme.

È possibile anche una seconda traduzione, ma è meno attestata: «Per ricondurre a sé Giacobbe e a sé riunire Israele», con soggetto Dio. In questo caso sarebbe Dio, non il servo, che riconduce Israele a Sion, ma rimane sempre vero il fatto che il servo è lo strumento di questa operazione divina che ha come destinatario il popolo di Israele. Perciò, anche in questo caso, si deve supporre una distinzione tra Israele in quanto popolo e «uno d’Israele», ovvero il profeta.

Rispondendo al lamento del profeta (v. 6), Dio non solo non lo solleva dal compito di cui si lamenta, non gli riduce il carico, ma anzi glielo raddoppia. Come se gli dicesse: Io da te mi aspetto molto di più: che tu sia profeta anche per le nazioni, come Geremia (cfr. Ger 1,5). «Io ti renderò luce delle nazioni» (v. 6): queste parole – già in 42,6 – sono state riferite al popolo ebraico nel suo complesso: quindi non desta stupore che abbiano consentito una rilettura di tutto il nostro brano in chiave collettiva.

Alla luce della piena manifestazione del progetto di Dio, che si è rivelato in Gesù di Nazaret, per i cristiani è solo Gesù che realizza la missione della misteriosa figura del Servo del Signore. Infatti, è Gesù la luce delle genti, come lo stesso prologo del Vangelo di Giovanni suggerisce e come confermano le parole dell’anziano Simeone a Maria nel testo di Luca: «Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,32). Allo stesso tempo Gesù è il servo che dona la sua vita non solo per ricondurre il popolo d’Israele a Dio, ma perché tutte le nazioni conoscano, nel dono della sua vita come agnello immolato, il volto misericordioso del Padre.

  1. Cfr. l’articolo precedente.
  2. «Quando ancora ero nel ventre gli venne in pensiero che il mio nome fosse Isaia, per profetizzare salvezza e consolazioni».

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