Attendendo la fine della notte: Giuseppe d’Arimatea

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Dopo la morte di Gesù in tutti gli evangelisti compare uno strano personaggio che va a chiedere il corpo di Gesù a Pilato e gli dà sepoltura. In precedenza non era mai uscito in tutto il racconto il suo nome. Prendiamo come riferimento il racconto di Marco, primo evangelista, il primo a raccontarci di lui..

⁴³Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.

Il narratore ci dà il nome, Giuseppe, e la sua provenienza, di Arimatea, toponimo sconosciuto tanto che ancora oggi gli esegeti litigano su dove si trovi questa località. Poi Marco precisa che è un è membro del sinedrio (bouleutḗs) e per di più un membro «eminente» o «onorevole». Quindi anche tra gli avversari di Gesù c’erano persone giuste e rette.

Infine afferma che «aspettava anch’egli il regno di Dio». È un sorprendente raggio di luce al di là della morte crudele inflitta a Gesù: c’è ancora un regno di Dio che vale la pena aspettare. Marco così ci rinvia alla prima proclamazione di Gesù: «Il regno di Dio è vicino!» (Mc 1,15). L’espressione enfatica, «anch’egli aspettava», allinea Giuseppe non tanto a questa o quella figura all’interno del racconto di Marco, quanto piuttosto al lettore/destinatario del testo, che in Mc 9,1 era stato invitato a tenere gli occhi aperti dopo le parole di Gesù che affermavano: «In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza» (cf. 13,34-37; 14,25).

Tutto il racconto ha senso solo se lo ascoltiamo «aspettando, anche noi, il regno di Dio»!

Dopo l’orrore del supplizio, ecco, uno dopo l’altro, dei personaggi «positivi», prima le donne (Mc 15,40-41) ora Giuseppe d’Arimatea. In questo modo noi lettori ci sentiamo stranamente rincuorati e stimolati alla fiducia. È come se il narratore ci dicesse: «E ora, uomini, donne, giudei o pagani, avvicinatevi. C’è un resto che non ha perso ogni speranza. Guardate coloro che perseverano al di là dell’orrore. Abbiate fiducia anche voi». Questo si addice perfettamente a un percorso iniziatico: dopo la dura prova, viene il momento della consolazione.

Con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.

Occorre coraggio per andare da Pilato a richiedere il corpo di Gesù, il corpo di un condannato alla crocifissione che non poteva essere seppellito nella tomba di famiglia accanto a persone perbene.

La reazione di Pilato è di meraviglia e poi si accerta che colui che ha condannato sia morto per davvero; rinvia quindi al Golgota quel centurione che aveva presieduto all’esecuzione della pena capitale e che, vedendo come Gesù era morto, aveva fatto la prima professione di fede: «Avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,38). Constatata la morte concede il corpo.

⁴⁴Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. ⁴⁵Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe.

Tutta questa messinscena ha la funzione di permettere a noi di ascoltare formalmente che Gesù è morto sul Golgota. Grazie a questo scenario, il centurione diventa colui che, dopo avere pronunciato il credo della comunità, si presenta anche come testimone per eccellenza della realtà della sua morte. In buona sostanza: nessuna vera risurrezione in assenza di una vera morte.

La descrizione di quanto fa Giuseppe d’Arimatea è dettagliata:

⁴⁶Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro.

Nel suo racconto Marco valorizza ogni elemento: il drappo/lenzuolo è «comprato» (il che gli conferisce valore, lo rende prezioso e quindi importante); il sepolcro è «scavato nella roccia» (informando così il lettore non originario della regione e sottolineando indirettamente il rispetto che ha circondato la sepoltura di Gesù); il corpo viene avvolto e messo nel sepolcro (la sua nudità coperta degnamente da un tessuto di lino prezioso); la pietra viene rotolata davanti alla porta (cosa nota ma non assolutamente comune: il sepolcro è degno).

Tutti questi elementi riuniti sottolineano, da una parte, che tutto è stato compiuto a dovere, con la precisione e il rigore richiesti, confermando così indirettamente, ancora una volta, la realtà della morte avvenuta, condizione indispensabile per la fede nella risurrezione; dall’altra, preparano direttamente il racconto che segue, l’epilogo, nel quale tutto sarà come meravigliosamente capovolto.

Siamo chiamati a registrare quindi attentamente ciò che si dice qui. In questo modo l’effetto sorpresa sarà ancor maggiore: al posto del drappo/lenzuolo troveremo una «veste bianca»; la pietra davanti al sepolcro sarà, contro ogni aspettativa, già rotolata da una parte («ora, essa era molto grande»); soprattutto, al posto del corpo nudo avvolto in un drappo/lenzuolo, adagiato nel sepolcro, troveremo delle donne che scoprono un «giovane», non disteso ma «seduto alla destra» e, inoltre, «vestito di una veste bianca»!

Notiamo infine che in Marco non si parla di un’unzione al momento della sepoltura. Per lui l’unzione di Betania, all’altro capo del racconto della passione, ha felicemente anticipato l’unzione che non sarà più possibile al momento della sepoltura. «Ella lo ha fatto in vista della mia sepoltura», profetizza Gesù in Mc 14,3-9.

La mattina di Pasqua le donne porteranno aromi, ma invano: il corpo non è più là!

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