Un crudele handicap per l’identità. Lo strano caso di Sarai in Gen 11,30.

Quando inizia la storia di Abram e della sua famiglia, mentre si presentano i personaggi e si danno le prime coordinate spazio temporali, c’è una esplicita menzione di Sarai, moglie di Abram. Di lei il narratore dice letteralmente:

«E fu Sarai sterile e non c’è per lei bambino».

La formulazione della frase è strana per due ragioni. Innanzitutto c’è la presenza del verbo «essere» che in questo caso non espleta la funzione macrosintattica ma è un verbo pieno. Si ha quindi una proposizione verbale. Ora in ebraico quando nella narrazione si tratta di constatare un dato di fatto di solito si ricorre a una proposizione nominale semplice, senza verbo essere: se devo dire «il re è/era buono» in ebraico è sufficiente affermare «e buono re». Quindi se il narratore qui voleva suggerire la semplice idea che Sarai era sterile bastava dicesse «E sterile Sarai». In più il verbo essere è coniugato come un wayyiqtol (o imperfetto inverso), tipica forma della concatenazione narrativa ebraica. Tale forma verbale di norma esprime la successione temporale rispetto a ciò che precede, nel nostro caso il matrimonio, o meglio la presa di possesso di Abram su Sarai: «E prese Abram e Nacor per loro mogli…». Costruito in questo modo il verbo essere può essere letto, secondo una delle sue sfumature possibili, con il significato di «diventare»1: «E divenne Sarai sterile». Se questa lettura è plausibile ciò significa che Sarai non è sempre stata sterile. La domanda che il lettore curioso si pone è allora: quando lo è diventata? Per rispondere c’è necessità di considerare il contesto in cui il narratore dà questa informazione su Sarai.

La famiglia di Terach

Il ciclo dei racconti si Abram-Abramo non inizia dove solitamente lo fanno iniziare i sottotitoli della Bibbia, vale a dire al v. 1 del capitolo 12 della Genesi. I nomi di Abram e di Sarai sono registrati già prima in Gn 11,26-27: sei volte il nome Abram e tre quello di Sarai. Di Abram si racconta la sua nascita e la sua posizione rispetto a suo padre, Terach, e ai suoi fratelli, Nacor e Aran, mentre di Sarai di dice che è stata presa (per due volte) e che è o “diventata” sterile. Di conseguenza di vv. 27-32 fungono da antefatto del ciclo narrativo, dove da un lato c’è un sommario della famiglia di Terach e dall’altro l’esposizione del racconto di Abram che sta per iniziare2.

La funzione essenziale dell’antefatto è quella di riassumere la situazione di partenza, nonché il contesto in cui vive Abram quando sarà raggiunto dalla parola di Yhwh che lo chiama (cfr. 12,1-3). Il fatto che il narratore si soffermi su questo sommario significa che è rilevante perché le informazioni date giocheranno un ruolo importante nel prosieguo della storia. Inoltre è su questo sfondo che si potrà comprendere l’intervento divino e la storia che esso inaugura quando Abram vi risponde.

²⁶E visse Terach setta anni e fece partorire Abram, Nacor e Aran. ²⁷E queste sono le generazioni di Terach. Terach aveva fatto partorire Abram, Nachor e Aran, ma Aran fece partorire Lot ²⁸e dunque morì Aran presso (contro) la faccia di Terach, suo padre, nella terra della sua generazione, in Ur dei Caldei. ²⁹E prese(ro) Abram e Nacor per loro delle mogli: il nome della moglie di Abram era Sarai e il nome della moglie di Nacor era Milca, figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. ³⁰E fu Sarai sterile, e non c’è per lei bambino. ³¹E prese Terach Abram suo figlio e Lot figlio di Aran figlio di suo figlio e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio e uscirono con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. E arrivarono fino a Carran e dimorarono là. ³²E furono i giorni di Terach duecentocinque anni e morì Terach in Carran.

Così come viene presentata la famiglia di Terach, da cui fuoriuscirà Abram, presenta delle criticità. Iniziamo notando che il nome del padre, Terach, ricorre sette volte segno di una presenza costante e sovrastante.

La prima criticità la si riscontra nella sequenza della catena narrativa. Infatti, dopo l’informazione suelle «generazioni» di Terach, il narratore ricorre a due proposizioni poste tra loro volutamente in parallelo:

            Terach         fece generare              Abram, Nacor e Aran,
e/ma    Aran            fece generare              Lot.

A parte i nomi quello che distingue le due proposizioni è che la seconda è introdotta dalla congiunzione waw. La congiunzione waw può avere forza avversativa. Ora nel parallelismo gli unici elementi uguali sono le due forme verbali, mentre tutti gli altri membri sono disuguali. Si tratta quindi di un parallelismo antitetico3 che, per quanto riguarda il «fare generare», tende a mettere in evidenza una differenziazione se non un contrasto. In questo contesto il waw può assumere una funzione avversativa: «ma Aran fece generare…». Se questa osservazione è plausibile allora il verbo della proposizione seguente ha funzione conclusiva4: «E dunque Aran morì in faccia a suo padre…». La morte di Aran è conseguenza del suo tentativo di far generare. Questo spiegherebbe la strana espressione del narratore per ricordare il fatto: «Morì in faccia (o contro la faccia) di Terach, suo padre». Ancora, non c’è ragione di specificare che Terach è padre di Aran perché era stato appena affermato, la ripetizione assume quindi un connotato di contrasto o di opposizione.

Nella famiglia di Terach sembra esserci spazio per un solo padre e ciò è confermato anche dai nomi che Terach mette ai figli: Abram significa il padre è grande o il padre è esaltato. Nomen omen il figlio ha come suo destino quello di fare grande il nome del padre. Al secondo viene messo il nome del padre di Terach, Nacor. È una specie di tributo alla sua paternità.

La paternità di Terach al v. 31 così viene descritta:

«³¹Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio».

C’è un’abbondanza di termini che indicano legame parentale – sette per la precisione5 –, la cui menzione, a ben guardare è superflua, perché il lettore è già stato edotto nei versetti precedenti sulle relazioni parentali all’interno della famiglia. Allora perché insistere su questo aspetto? Così narrata la storia induce la sensazione di una forte interdipendenza fra queste persone, legate fra loro da strette relazioni di cui Terach è il centro e il padrone. Lo attestano il ricorso a un verbo che sottolinea il possesso («prendere»), nonché i quattro possessivi che rinviano tutti a Terach e unicamente a lui, al quale ogni persona nominata viene direttamente legata.

La seconda proposizione del v. 31 letteralmente suona così: «… ed essi uscirono con loro da Ur dei Caldei…». A chi si riferisce il soggetto «essi» e con «chi» escono? È chiaro dal contesto che il plurale del verbo fa riferimento a tutti i personaggi citati nella proposizione precedente così come il pronome suffisso «con loro». In questo modo il narratore veicola l’idea che tutti con tutti escono; o, piuttosto, ognuno con coloro che gli sono legati: Terach con coloro che prende, Abram con suo padre Terach e sua moglie Sarai, Lot con suo nonno Terach e il ricordo di suo padre morto, Sarai con suo suocero Terach e suo marito Abram. I legami dei membri di questa famiglia sono così stretti che nessuno fa nulla senza gli altri e ognuno agisce come coloro che sono legati a lui e simultaneamente a loro e tutto avviene sotto la guida del padre che gli «prende» tutti.

Se questa è l’idea che il narratore suggerisce, con questa descrizione del v. 31 siamo davanti ad un universo familiare che è di stampo fusionale, controllato e dominato dall’unico padre, Terach. È lui che decide per tutti e questo è evidente perché nel momento che decide di lasciare Ur alla volta di Canaan prende tutti e li prende con il loro consenso, come lascia intendere il fatto di essere con lui soggetti del verbo «uscire». Come se non immaginassero di poter essere soggetti diversamente dalla dipendenza dal padre; come se non potessero avere altra iniziativa se non quella di restare sotto il suo controllo. Viene messo in scena la situazione opposta a quella che annunciava il progetto divino in Gen 2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre …». Una famiglia come quella di Terach non lascia partire i suoi figli così che trovino la propria singolarità personale. Sono tutti catturati dalla personalità del padre-padrone. In questo senso si riproduce in scala ridotto la società di Babele caratterizzata dalla paura della differenziazione, dal desiderio di con-fusione6.

Di nuovo a Sarai

Se la lettura delle forme verbali del v. 30 è corretta, allora Sarai non è sempre stata sterile ma lo è diventata. A differenza di Nacor che sposa la nipote Milca, rispettando la logica che è sottesa alla famiglia di Terach, Abram invece non sceglie in sposa Isca, l’altra nipote orfana, ma «prende» la sua sposa al di fuori della famiglia: Sarai, il cui nome significa «miei principi» o «miei capi». Che sia estranea alla famiglia – nonostante l’affermazione di Abramo secondo cui sarebbe la figlia di suo padre (cf. 20,12) – viene immediatamente confermato al v. 31a, dove Sarai è presentata come la nuora di Terach, «la moglie di Abramo suo figlio». Ora, dopo il matrimonio, si scopre che Sarai è sterile (v. 30). La costruzione della frase ebraica, come si è visto, suggerisce che la sterilità di Sarai è conseguente all’essere stata «presa» da Abram e così si ritrova nella famiglia di Terach, che del resto non tarderà a «prenderla» a sua volta (v. 31).

Facendo attenzione al v. 30 si constata che è preceduto e seguito da due proposizioni nelle quali Sarai è oggetto diretto del verbo «prendere», di cui è soggetto Abram al v. 29 e Terach al v. 31. È fra queste due «prese» che Sarai è “soggetto” del verbo «essere» che la qualifica, individuandola, sterile. C’è quindi un paradosso in questa sequenza narrativa: è la sterilità a fare di Sarai un soggetto, riscattandola da “oggetto” del verbo «prendere». In qualche modo, Sarai «è» perché è sterile. A conferma di questo dato c’è la genealogia che precede il nostro passo (cf. 11,10-26), dove non viene riportato alcun nome di donna. Eppure le mogli degli uomini citati lì non sono assenti perché il narratore ricorre per 27 volte alla forma verbale «fece generare». Anonime, le mogli sono solo i «ventri» indispensabili alla generazione dei figli. Con la sua sterilità Sarai sfugge a questo destino anonimo. Il suo corpo si oppone quando è «presa», quando è introdotta in questa famiglia dove si aggira la morte. Così la sua sterilità diventa de facto il principio che rende possibile la sua identità soggettiva.

La seconda espressione del v. 30, «non c’è per lei bambino», pur nella sua dimensione negativa di privazione, continua a coglie la moglie di Abram nella sua specificità. La realtà della sterilita è per Sarai una mancanza crudele, un handicap, ma allo stesso tempo le conferisce un’identità di personaggio, togliendola dalla massa anonima delle moglie che hanno contribuito alle generazione.

  1. L. ALONSO SCHÖKEL, Dizionario di Ebraico Biblico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 200.
  2. Sul concetto di esposizione come momento iniziale dell’intreccio narrativo cf. SKA J.-L., «I nostri padri ci hanno raccontato». Introduzione all’analisi dei racconti dell’Antico Testamento (Collana biblica), EDB, Bologna 2012, 42-48.
  3. Cf. ALONSO SCHÖKEL L., Manuale di poetica ebraica (Biblioteca biblica 1), Queriniana, Brescia 1989, 69-60.
  4. Si tratta di un  wayyiqtol di natura conclusiva. Cf. NICCACCI A., Sintassi del verbo ebraico nella prosa biblica classica. (SBF Analecta 23), Franciscan Printing Press, Jerusalem 1986, § 140.
  5. Cinque volte il termine figlio, una volta i termini nuora e moglie.
  6. TADIELLO R., La dispersione occasione positiva di crescita, in «BeO» 249-250 (2011), 129-148; WÉNIN A., Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I Gen 1,1-12,4 (Testi e commenti 14), EDB, Bologna 2008, 153-162.

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