Continua la nostra presentazione del racconto della torre di Babele. Il narratore lo inizia con il tipico incipit favolistico: «E avvenne che…» (wayehî) richiamandosi a Gen 4,2b.3. La situazione che ritrae è agli antipodi di quella storica sperimentata: siamo ancora nel genere dell’eziologia metastorica. Ecco il testo:
1Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra».
Una terra da conquistare
L’espressione del v. 1, «tutta la terra un labbro solo e stesse parole», può essere interpretata in due modi:
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in riferimento al linguaggio umano, si può intendere «Tutta la terra aveva una lingua sola e le stesse parole» (cfr. BC). Il racconto della torre di Babele risulterebbe una spiegazione della molteplicità dei popoli e delle lingue (cf. Gen 10).
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Ma vi è anche un altro significato, sulla scorta di testi paralleli di carattere politico-militare soprattutto provenienti dagli archivi neoassiri (883-606 a.C.). Espressioni come «un solo labbro» e «uniche parole», ossia «uniche imprese» esprimono l’unità di più popoli che ha uno stesso sentimento, che sono amministrati da un unico governo centrale, che venerano lo stesso dio nazionale (con il suo pantheon). Si tratterebbe quindi di un progetto “imperialistico”, che vuole unire politicamente e religiosamente diversi popoli sotto un’unica autorità 1.
Il soggetto del v. 2 è volutamente imprecisato (un pronome suffisso di terza persona plurale maschile): ogni gruppo di uomini può sperimentare la verità della narrazione. Il verbo «emigrare» nāsaʿ letteralmente «piantare e togliere il picchetto della tenda» è tipico delle storie patriarcali e della peregrinazione del popolo nel deserto (Gen 12,9; 33,17; Es 12,37; 14,19). Esprime quindi la vita nomade. Al verbo tipico della vita nomade, posto all’inizio del versetto, è contrapposto alla fine del versetto il verbo «abitare/stabilirsi» yāśaḇ tipico della vita sedentaria 2. Il v. descrive la parabola culturale che segna il trapasso dalla vita nomade a quella sedentarizzata: la fase nomadica, la ricerca di un “luogo” e l’insediamento stabile. Il riferimento «dall’oriente» (miqqedem) è volutamente generico ed è tipico della storie primordiali (cf. Gen 3,24; 4,16).
Il progetto della torre
Nel discorso di questi uomini non solo è da leggersi la volontà di mettere in cantiere un’opera di costruzione, ma la stessa messa in opera del lavoro. Nelle loro parole c’è una sottile ironia espressa nel testo ebraico dalla presenza delle tre consonanti n, b, l che al v. 7 andranno a costituire la forma del verbo «confondere» nāḇlâ. Lo scopo esplicito della costruzione è per farsi un nome così da «non disperderci su tutta la terra» ed è proprio quello che accadrà alla fine del racconto. Quando YHWH gli disperderà il nome dato sarà non segno di successo ma di fallimento. La seconda parte del v. 3 è una nota esplicativa del narratore per il lettore che non conosceva la tecnica edile dei babilonesi. Il piano di costruzione, con il suo linguaggio tecnico, ci richiama i racconti mesopotamici e il cerimoniale tipico di fondazione di una città (cfr. la fondazione di Esagila in Enuma Elish VI, 60-62).
Il secondo discorso degli uomini al v. 4 esplicita la decisione e lo scopo della costruzione. «Venite, costruiamoci una città e una torre…», città e torre sono due realtà inscindibili nell’urbanistica mesopotamica tanto che si potrebbe rendere l’espressione così: «Venite costruiamoci una città con la torre» 3.
Lo scopo di «toccare il cielo» non va inteso come semplice linguaggio iperbolico, esso ridonda di significato teologico. Infatti la «torre» è un microcosmo che riproduce il macrocosmo: sette sono le terrazze per riprodurre i sette pianeti (allora conosciuti) e il «centro» della torre era teologicamente il nesso tra il cielo e la terra (tra l’arallu e l’abitazione degli Dei).
In lingua sumerica la ziqqurat di Babilonia è chiamata E.TEMEN.AN.Ki che significa «casa del fondamento del cielo e della terra», mentre il suo tempio è detto E.SA.GILA che significa «casa che alza la testa». Uno sguardo alla letteratura profetica ci dà il significato del simbolismo dell’alzare la testa (cf. Is 2,6-23; 14; Ez 28; Ger 51,53). Tale costruzione viene interpretata come una sfida contro Dio. Il progetto dei uomini radunati nella pianura di Sinar è interpretato dal testo sacro come la costruzione di una città, Babilonia, rivale di Gerusalemme (cf. Ger 50,28s.; 51,5.9.24.35) e di una ziqqurat, in antitesi al tempio di Sion (cf. Ger 50.2.24; 51,5.25.44). Il simbolismo delle due città contrapposte sviluppato nell’apocalittica, trova qui un ottimo antecedente 4.
Il secondo scopo del progetto degli uomini è quello di «farsi un nome». Più avanti nella storia di Abramo sarà Dio stesso che promette di rendere grande il nome del patriarca (cf. Gen 12,2) e così varrà anche per Davide (2Sam 7,9; 2Sam 8,13). In altri passi dell’AT è Dio stesso che si fa un nome (cf. Is 63,12.14; Ger 32,20, Ne 9,10). Inoltre l’espressione è tipica di molte iscrizioni monumentali mesopotamiche.
Di conseguenza nella bocca degli uomini di Gen 11, essa suona come una blasfemia. Il «nome» è molto di più di una «pura appellazione» 5 è una realtà stabile che assicura la sopravvivenza per il futuro, più o meno come il padre è presente nella fisionomia e nella vita dei suoi figli (cfr. Sir 40,19) 6. Nel nome che gli uomini vogliono farsi c’è una volontà di contrapporsi all’unico Nome che la fede biblica è grande quello di YHWH (cf. Es 9,16; Mal 1,11; Sal 75,2; 148,13).
Il nome grande permetterà agli uomini di «non essere dispersi su tutta la terra» (11,4b). I commentatori antichi hanno evidenziato, tra i vari motivi 7 che avevano spinto gli uomini a costruire la città e la torre, quello di resistere al comando divino dato in Gen 1,28 e ripetuto dopo il diluvio in Gen 9,1.7 di moltiplicarsi e di riempire tutta la terra (cf. Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche) 8.
- Il testo della cronaca del re Sargon di Agade (2300 a.C. circa), uno dei primi sovrani semiti di Babilonia, descrive la conquista dell’impero e la centralizzazione del potere nelle mani del re con una espressione che recita letteralmente: «Egli fece la bocca [del suo impero] una sola»: ANET, 266: «He established there a central government (lit.: he made its mouth be one)». Il re assiro Tiglat-Pileser I (1115-1077 a.C.), dopo aver sconfitto durante i primi cinque anni del suo regno ben quarantadue principi e riunito sotto il suo nome i loro territori, fa scrivere: «Una bocca feci avere loro», vale a dire «un solo discorso feci tenere loro». La stessa espressione si ritrova negli annali dei re assiri Adad-Nirari II (911-891 a.C.), Assurbanipal II (883-859 a.C.), Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.) e Sargon II (721-705 a.C.), che conquistò la città di Samaria (cf. 2Re 17,1-6): E. Testa, Genesi. Introduzione – Storia primitiva (La Sacra Bibbia), Torino-Roma 1969, 199-200; Uehlinger, Weltreich und ‘eine Rede’, 462.
- Dal punto di vista della sintassi testuale il v. è un’unica proposizione retta dal verbo iniziale wayehî che ha funzione macrosintattica. In questo caso regge una proposizione doppia che ha come protasi un’indicazione temporale costituita dalla frase preposizionale «nell’emigrare essi» (benāseʿām) e nell’apodosi due proposizioni finite («capitarono» wayyimṣeʾû; «stabilirono» wayyēšḇû).
- Cf. Testa, Genesi. Storia primitiva, 434-435.
- Borgonovo, Genesi, 95.
- Cf. Testa, Genesi. Storia primitiva, 435.
- Ad esempio Hammurabi vuole che il suo nome sia pronunciato per sempre nell’E.SA.GILA. Cf. V.P. Hamilton, The Book of Genesis: Chapters 1–17 (NICOT n.d.), Grand Rapids 1990, posizione 6341.
- Nei targumîn palestinesi la costruzione della torre (l’unico elemento rimasto di tutto il versetto) viene letta come un atto di superbia umana contro Dio equiparato all’idolatria. Cosi il midrash haggadico interpreta l’episodio come un atto di ribellione contro Dio considerando le «stesse parole» del v. 1 «parole aggressive contro: Il Signore nostro Dio il Signore è Unico (Dt 6,4)» e la costruzione della torre un atto di idolatria: «E contro il Signore Dio nostro dissero: “Non sta a Lui solo scegliersi i celesti e darci i terrestri”, ma “Venite e costruiamo una torre e sulla sua sommità collocheremo un idolo, gli metteremo una spada in mano e sembrerà che gli faccia la guerra”» (Berešit Rabbâ, XXXVIII, 6). In termini di hybris si esprime Filone attraverso l’interpretazione allegorica del racconto, mosso dal desiderio di far conoscere ai greci i testi ebraici. Il riferimento al mito greco è evidente: già in Omero due giganti, figli di Ifimedia e Poseidone, «avevano desiderato mettere l’Ossa sull’Olimpo e poi sull’Ossa di Pelio dalle foglie agitate [due montagne], affinché il cielo fosse facilmente raggiungibile» (Odissea 11,315-316). La stessa presunzione hanno gli uomini di Babele nel costruire la torre, una sorta di acropoli, «un castello inespugnabile in mano a quel tiranno che è il vizio del quale i piedi camminano sulla terra e la testa tocca il cielo, spinta a tanta altezza dall’orgoglio» (De confusione linguarum 13). Cf. Scarpa, Babele o della dispersione, 36-37; G. Scarpat, La torre di Babele in Filone e nella Sapienza (Sap 10,5), in Rivista biblica 3 (1991), 167-173.
- L. Moraldi, Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, 1: LIbri I-IX (I Classici delle Religioni. La religione ebraica), Torino 1998, 66-67. Cf. E. Van Wolde, Words Become Worlds. Semantic Studies of Genesis 1-11 (Biblical Interpretation Series 6), Leiden 1994, 85-109; E. Van Wolde, Facing the Earth: Primaeval History in a New Perspective, in P.R. Davies – D.J.A. Clines, eds., The World of Genesis: Persons, Places, Perspectives (JSOTSup 257), Sheffield 1998, 22-47, in particolare le pagine 37-45.