Come bambini

 

L’attesa è terminata ed è ancora una volta Natale! L’avvento è stato un viaggio con meta Betlemme. Lo scopo? Contemplare il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio.

Sono stati nostri compagni di viaggio i profeti con le loro voci, Giovanni Battista e la sua testimonianza, Giuseppe con il suo sogno e Maria che ha avuto un coraggio da leoni con il suo “si” all’angelo Gabriele. Tutti questi personaggi hanno tracciato quella strada che ci ha portato, colmi di desiderio, a contemplare la follia di un Dio fatto uomo. Il dono, piccolo e immenso, del suo Natale si dispiega agli occhi della nostra fede per essere riconosciuto, accolto e creduto

Il punto di vista da cui la liturgia del giorno ci fa contemplare il mistero d’amore del Natale è piuttosto suggestivo. Lo troviamo nella prima lettura, tratta dal profeta Isaia, dove il profeta riceve una visione sulle rovine di Gerusalemme, la città devastata i cui abitanti sono stati deportati. Da un luogo di miseria scorge improvvisamente sulle colline che circondano la città i piedi di un messaggero di liete notizie:

Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion (Is 52,8).

Dal fondo dell’esilio e della solitudine – quella in cui ci ha gettato la pandemia –, risorge per la Chiesa l’annuncio del Natale e la gioia che sprigiona. Dio accende una speranza di vita per tutta la storia e per tutte le nostre storie, come ci fa cantare gioiosamente il salmo responsoriale: «Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio».

Il prologo del vangelo di Giovanni narra la stupefacente comparsa di Dio tra le rovine della storia umana e lo fa in termini di contemplazione estatica, ma anche con accenti di profondo realismo:

Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto (Gv 1,10-11).

La sfida che il Natale lancia al nostro buon senso è riconoscere la piccolezza come il marchio autentico della vita divina. Infatti, facendosi uomo, il Verbo di Dio non ha voluto assumere la forma abbagliante di un re potente, ma la forza mite e invincibile di un infante, di uno che – letteralmente – non può parlare. Infatti, un neonato non sa parlare, eppure sa esercitare la forza più sovversiva che esista al mondo: suscitare nell’altro pensieri e azioni improntate al bene.

La parola di Dio è venuta ad abitare in mezzo a noi come una piccola fiaccola che, lentamente e inesorabilmente, pone fine alle tenebre che la circondano semplicemente con la sua presenza e con la sua luce. È questo il segno del Natale. È questa la straordinaria forza della «luce vera, quella che illumina ogni uomo» (1,9). Essa si nutre di una luminosità mite, serena, stabile che vince sulle tenebre con la bellezza che irradia. È come un fiore al centro di un campo, come un cielo terso srotolato sopra un prato o un tramonto che strega lo sguardo e il cuore.

Sulle «rovine» di questo tempo “pandemico”, ancora una volta, i cristiani celebrano caparbiamente nel mistero dell’incarnazione la loro speranza per il presente e per il futuro. Anche se molti problemi gettano un’ombra sui sogni che portiamo nel cuore, il Natale del Signore afferma silenziosamente che il futuro è “ricco di grazia”. Non tanto quella che potremo ricevere, ma quella che sapremo restituire, diventando anche noi vera luce e Parola incarnata.

Se sapremo credere che «ultimamente, in questi giorni, Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,2), lo Spirito del Figlio ci farà scoprire di quante mangiatoie vuote è disseminata la realtà, dove convertire la bramosia di mangiare in desiderio di donarsi. C’è solo da riconoscere quella preparata per noi e lasciarci adagiare su di essa senza paura e pieni di confidenza come bambini appena nati.

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