[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero], ⁹il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». ¹⁰Rispose: « Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». ¹¹Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». ¹²Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». ¹³Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
¹⁴Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita, ¹⁵lo porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
²⁰L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Dopo la tentazione e la caduta, il racconto della Genesi mette in scene il processo divino intentato contro i colpevoli, l’uomo e la donna, proponendo in sequenza istruttoria, interrogatorio e sentenza. I primi due elementi sono integralmente riportati dalla brano liturgico proposto per la solennità dell’Immacolata, mentre per le sentenze contro i colpevoli ci si limita a quella contro il serpente e al nome dato da Adamo alla sua donna Eva.
Dove sei? O dove sei andato a finire?
Emerge nella scena dell’istruttoria e dell’interrogatorio un volto di Dio che è già quello della “redenzione”. Infatti è un Dio alla ricerca dell’uomo, di un uomo che si è smarrito e non ritrova più se stesso, come viene espresso efficacemente dall’immagine dei due colpevoli acquattati dietro un cespuglio, quasi a sottrarsi allo sguardo di Dio e a nascondersi a se stessi.
Quando il Signore Dio chiama Adamo: «Dove sei?» non cerca una risposta per sé, come se non sapesse dietro quale cespuglio l’uomo si era andato a nascondere, ma perché Adamo si interroghi e rifletta su cosa ha fatto e sulle conseguenze che ne sono derivate. La domanda divina la si potrebbe esprime anche così: «Guarda dove sei andato a finire, considera come ti sei ridotto. Cos’hai fatto della tua vita?».
La nudità che fa paura
La risposta dell’uomo è tutt’altro che una presa di coscienza del proprio peccato: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto« (v. 10). Quando sceglie di comportarsi in modo autonomo nelle sue scelte, l’uomo rifiuta Dio e la sua parola, non lo considera un amico, ma un estraneo, un intruso pericoloso per la propria indipendenza e libertà. Nascondersi dal Signore significa abbandonare la preghiera, disinteressarsi dell’ascolto della parola di Dio, prendere le distanze dalla vita della propria fraternità per non essere rimessi in discussione, per non sentirsi intralciati nelle proprie scelte. L’uomo ha paura di Dio perché teme che egli lo privi della felicità. In realtà, è proprio staccandosi da lui che precipita nel baratro della confusione totale.
Il passo successivo è la vergogna per la propria nudità. Al termine del racconto della prima coppia, il narratore aveva annotato: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2,25). Qui la nudità non ha nulla a che vedere con il pudore e il sesso, indica la condizione naturale, originaria dell’uomo. È lo stato in cui veniamo al mondo come ben ricorda il Qoèlet: «Come è uscito dal grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto» (Qo 5,14). Spogliato di ciò che si mette o gli si mette addosso – beni, onorificenze, prestigio sociale, posizioni di potere, notorietà – l’uomo rimane se stesso, con i limiti, le debolezze, le fragilità che caratterizzano la sua realtà di creatura.
Di questa nudità la persona sana non si vergogna, ma la accoglie con serenità e la ama; non pensa minimamente di cedere alla follia di oltrepassare il proprio limite, non considera un fallimento l’incapacità di risolvere tutti i problemi, non ritiene una sconfitta le debolezze fisiche, psicologiche e morali, l’ignoranza, la malattia e la morte. È il serpente che è in noi che spinge a rifiutare questa realtà, che sollecita a liberarci di Dio per trasformarci in superuomini.
Rottura dell’armonia con i fratelli
La rottura della relazione con Dio porta come conseguenza un processo di “scaricabarile”: Adamo accusa Eva, questa attribuisce la colpa al serpente, ma, a ben vedere, entrambi vogliono far ricadere la colpa su Dio che avrebbe creato un mondo sbagliato. Adamo si giustifica dicendogli: io non ho fatto altro che fidarmi «della donna che tu mi hai posto accanto» (v. 12); se lei, invece di avvicinarmi, mi ha allontanato da te, vuol dire che l’hai fatta male. Questa reazione rappresenta il tentativo di scaricare le responsabilità del male commesso su capri espiatori che possono essere la famiglia in cui si è nati, la società, l’educazione ricevuta e, in ultima analisi, Dio che ha voluto che l’uomo non potesse realizzarsi che nell’incontro con i propri simili, i quali però, spesso, invece di sollevarlo in alto, lo trascinano verso il basso.
La donna, interrogata a sua volta, dà la colpa al serpente e, siccome il serpente non è che l’altra faccia della nostra realtà di uomini, anche le sue parole costituiscono un’accusa nei confronti di Dio. Eva infatti gli rinfaccia il suo errore: tu hai fatto male le cose creando l’uomo così com’è, capace di compiere follie e crimini. Perché non l’hai creato perfetto? Come mai in lui c’è questo serpente insidioso che inietta veleno mortale?
Formulata in modo diverso, questa è l’obiezione che si ode continuamente ripetere anche oggi di fronte al problema dell’esistenza del male. È in questa pretesa di un mondo e di un’umanità perfetta che sta il rifiuto della propria nudità. Neppure Dio poteva farci perfetti, impeccabili, immortali, perché non saremmo stati noi, ma altre creature. Se voleva noi, non poteva che farci così.
Dopo essersi rivolto all’uomo e alla donna, ci aspetteremmo che Dio chiamasse a rapporto il serpente, invece non lo fa, perché il serpente non è una creatura distinta dall’uomo, ma è la parte dell’uomo che si oppone a Dio, quella che rifiuta la propria condizione e il proprio limite.
Il serpente sarà invincibile?
L’uomo è destinato a rimanere per sempre schiavo della forza del male che, come una radice cattiva, porta in sé fin dal concepimento (Sal 51,7)? Dal punto di vista dell’uomo la condizione umana pare disperata e Paolo la descrive in toni drammatici:
Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto… Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio… Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? (Rm 7,15-24).
Nell’ultima parte del brano (3,14-15) Dio risponde a questa inquietante domanda. La lotta fra la sapienza di Dio e il serpente, ambedue presenti nell’uomo, continuerà fino alla fine del mondo, ma l’esito del confronto è segnato. Il serpente è dichiarato maledetto, cioè privo di forza soprannaturale e quindi non irresistibile; può essere vinto e difatti lo sarà. La sua sconfitta è decretata ed è descritta con immagini belliche molto efficaci. Lambirà la polvere, cioè, andrà incontro a una disfatta umiliante (Sal 72,9); striscerà per terra, come erano costretti a fare i nemici sconfitti di fronte al vincitore (Sal 72,11).
«lo porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (v. 15). Questa è l’ultima immagine, la più viva e drammatica, con cui si chiude l’annuncio della disfatta del serpente.
Il conflitto continuerà, il serpente tenterà in ogni modo, fino alla fine, di mettere in atto le sue insidie mortali contro l’uomo, ma non riuscirà nel suo intento e sarà proprio l’uomo – stirpe della donna – a schiacciargli la testa. È questo il primo, lieto annuncio – anche se ancora vago e indefinito – della vittoria del Messia, «nato da donna» (Gal 4,4).
Alla luce di questa lettura, la proclamazione dell’Immacolata Concezione di Maria acquista un significato nuovo e stimolante. È l’invito a volgere lo sguardo verso colei che, fin dal suo concepimento, ha realizzato quell’armonia perfetta che Dio ha sognato fin dal primo mattino del mondo.
È immacolata fin dal suo concepimento, cioè, nella totalità della sua esistenza. In lei la vittoria sul serpente è stata completa perché in lei lo Spirito divino che ha animato suo figlio ha potuto operare le sue meraviglie (Lc 1,49). È il segno più nitido del trionfo di Dio sul male.
La Vergine Maria è ciò che Dio sognava fin dal principio. Una umanità che riconosce la centralità di Dio nella propria vita, nella propria storia, che crede alla Sua parola. Molte volte pensiamo alla predestinazione come qualcosa di imprescindibile dal libero arbitrio, come lo negasse, è un pensiero sbagliato, lo dimostra il fatto che l’Angelo chiede l’ assenso di Maria affinché abbia compimento la predestinazione di Maria. Mai può Dio tradire il nostro libero arbitrio anche fosse il Progetto dei progetti. Dall’ inizio Dio prospetta questo evento eppure, perché esso si compia c’è bisogno del si della creatura, pura, casta, vergine, preservata ma, libera. Condizione quella di Maria che era bagaglio dei nostri progenitori, eppure c’è stata disobbedienza da una parte e obbedienza dall’altra. Eppure tutto questo è frutto di Colui che si è fatto obbediente fino alla morte e risorgendo ha dato inizio a una figliolanza divina di cui Maria è la prima beneficiaria. Guardando Maria dovremmo vedere cosa siamo chiamati ad essere. È un annuncio meraviglioso questo di Maria perché ci dice che Dio è Fedele. Dobbiamo amarla e imitarla primo perché Dio l’ ha scelta, secondo perché ha detto Si e terzo perché Cristo ce l’ha donata come Madre, figura della Chiesa.