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Naaman il Siro

Il brano proposto come prima lettura nella 28° domenica del tempo ordinario anno C è tratto dal capitolo quinto del secondo libro dei Re. Ci racconta l’epilogo felice della storia di Naaman, un generale arameo, appartenente a un popolo tradizionalmente nemico di Israele. È quindi un testo destabilizzante, capace di confondere alcune ristrette prospettive teologiche. Qui di seguito riporto il racconto nella sua interezza.

1 Naamàn, comandante dell’esercito del re di Aram, era un personaggio autorevole presso il suo signore e stimato, perché per suo mezzo il Signore aveva concesso la salvezza agli Aramei. Ma quest’uomo prode era lebbroso. 2Ora bande aramee avevano condotto via prigioniera dalla terra d’Israele una ragazza, che era finita al servizio della moglie di Naamàn. 3Lei disse alla padrona: «Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria, certo lo libererebbe dalla sua lebbra». 4Naamàn andò a riferire al suo signore: «La ragazza che proviene dalla terra d’Israele ha detto così e così». 5Il re di Aram gli disse: «Va’ pure, io stesso invierò una lettera al re d’Israele». Partì dunque, prendendo con sé dieci talenti d’argento, seimila sicli d’oro e dieci mute di abiti. 6Portò la lettera al re d’Israele, nella quale si diceva: «Orbene, insieme con questa lettera ho mandato da te Naamàn, mio ministro, perché tu lo liberi dalla sua lebbra». 7Letta la lettera, il re d’Israele si stracciò le vesti dicendo: «Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi ordini di liberare un uomo dalla sua lebbra? Riconoscete e vedete che egli evidentemente cerca pretesti contro di me».
8Quando Eliseo, uomo di Dio, seppe che il re d’Israele si era stracciate le vesti, mandò a dire al re: «Perché ti sei stracciato le vesti? Quell’uomo venga da me e saprà che c’è un profeta in Israele». 9Naamàn arrivò con i suoi cavalli e con il suo carro e si fermò alla porta della casa di Eliseo. 10Eliseo gli mandò un messaggero per dirgli: «Va’, bàgnati sette volte nel Giordano: il tuo corpo ti ritornerà sano e sarai purificato». 11Naamàn si sdegnò e se ne andò dicendo: «Ecco, io pensavo: «Certo, verrà fuori e, stando in piedi, invocherà il nome del Signore, suo Dio, agiterà la sua mano verso la parte malata e toglierà la lebbra». 12Forse l’Abanà e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per purificarmi?». Si voltò e se ne partì adirato. 13Gli si avvicinarono i suoi servi e gli dissero: «Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: «Bàgnati e sarai purificato»». 14Egli allora scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola dell’uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato.
15Tornò con tutto il seguito dall’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». 16Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. 17Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore.

Il racconto si apre con l’informazione che il Signore, il Dio di Israele, aveva concesso per mezzo del generale Naaman la salvezza agli Aramei, nemici giurati di Israele (2 Re 5,1). Il narratore biblico fa, dunque, un’affermazione molto forte: il Dio d’Israele è un Dio libero, che non accetta di essere posseduto da alcuna comunità umana. Molti secoli dopo Pietro farà la stessa constatazione: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10,35).

Tuttavia, questo “strumento di Dio”, questa persona «autorevole presso il suo signore e stimato» (v. 1) era affetto da lebbra.

La lebbra

Il termine ṣāraʿat è utilizzato nei testi biblici per indicare una serie di malattie della pelle più o meno pericolose e contagiose, guaribili e inguaribili. Il libro del Levitico affronta a lungo il tema della lebbra nei capitoli 13–14, ponendo i lebbrosi tra le categorie impure: dovevano evitare il contatto con le altre persone, ed era loro severamente proibito di accostarsi alla città santa e al suo tempio. Secondo la legge mosaica, i sacerdoti erano responsabili di diagnosticare la lebbra – ordinando la separazione del malato dal mondo dei sani (Lv 13) – e di riconoscere l’avvenuta guarigione, reintroducendolo nel mondo dei vivi con una serie di atti liturgici (Lv 14,3-20).

A causa del contagio e della distruzione operata sul corpo del malato, la lebbra era considerata una malattia repellente e molto pericolosa: il rituale di separazione, simile ai riti funebri, escludeva di fatto l’ammalato dalla partecipazione alla vita religiosa e sociale. Anche se spesso la durezza della norma era mitigata dalla pietà sociale, soprattutto nelle zone rurali il lebbroso era considerato maledetto da Dio e per questo escluso dal popolo dell’alleanza.

La guarigione veniva paragonata ad una risurrezione dai morti, come evidenzia bene la reazione del re d’Israele alla richiesta del sovrano di Aram: «Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi ordini di liberare un uomo dalla sua lebbra?» (2 Re 5,7).

Guarigione e obbedienza

Con queste premesse è facile comprendere come la scoperta della malattia gettasse una persona in uno stato di disperazione e la spingesse a compiere qualsiasi azione e a pagare qualunque prezzo pur di ottenere la guarigione (2 Re 5,11.13). Forse per questo la semplice indicazione data da Eliseo – «Va’, bagnati sette volte nel Giordano: il tuo corpo ti ritornerà sano e sarai purificato» (v. 10) – non soddisfa Naaman. Perché Elisea dà quest’ordine?

Probabilmente il profeta intende eliminare ogni rischio di fraintendimento: l’uomo di Dio non è un mago, un operatore di prodigi. Eliseo ha la chiara consapevolezza che la guarigione non è opera sua, ma frutto dell’obbedienza alla Parola. Il fatto stesso che non esca per incontrare il generale arameo fermo sulla soglia della sua casa (2 Re 5,10), suggerisce la volontà di non legare Naaman a se stesso, ma di spingerlo a proseguire il proprio cammino di fede per divenire, insieme con lui, servo di colui che può offrire una guarigione radicale: il Dio d’Israele. Il profeta è solo una voce, come ribadirà in un contesto diverso Giovanni il Battista (Gv 1,23).

Il miracolo accade laddove non era atteso, nelle acque del fiume Giordano: «Egli allora scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola dell’uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato» (v. 14). Naaman non è solamente guarito, ma è trasformato in una creatura nuova. Il commento posto come inciso al v. 14 – «il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo» – rivela un rovesciamento tipico dell’agire di Dio. La lebbra, segno della maledizione di Dio, è trasformata in sorgente di benedizione: l’uomo potente ritorna ‘bambino’ e il generale diviene per sempre ‘servo’ del Dio di Eliseo. Il passaggio è sancito dalla professione di fede – «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele» (v. 15) – sancita dalla decisione di portare la terra «sacra» d’Israele nella sua casa, come segno tangibile della presenza del Dio-che-salva nella propria vita.

I servi

Nella dinamica del racconto la figura dei «servi» riveste un ruolo decisivo: l’ascolto delle parole di una schiava ebrea («serva») conduce il generale arameo sulla soglia di un profeta straniero (v. 3). Davanti al comando apparentemente privo di significato di Eliseo, le parole di altri «servi» convincono Naaman a obbedire (v. 13). Nei vv. 14-15 per cinque volte, colui che era pronto a «pagare» per guadagnare la propria guarigione, si dichiara «servo» del profeta di Dio, servo del Dio che Eliseo serve. Comprendiamo dunque che qui si situa il miracolo reale: trasformare un «nemico» nel servo del Signore; una vita segnata dalla lebbra in un’esistenza consacrata al servizio esclusivo di colui che lo ha salvato.

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