Con la creazione della donna si supera la solitudine del terrestre e si dà avvio alla sua differenziazione. I versetti sono incorniciati dal vocabolo basar, «carne», che ricorre all’inizio (v. 21) e alla fine (v. 24) e per ben due volte nel versetto centrale (v. 23).
La scena si può strutturare in tre brevi sequenze o quadri:
- l’azione di Yhwh Elohim (vv. 21-22);
- la reazione del terrestre con le sue prime parole (v. 23);
- il commento del narratore (vv. 24-25)
L’azione prende avvio da un intervento di Yhwh Elohim la cui presenza sfuma dal v. 23 e seguenti per lasciare campo al presunto canto di giubilo di ʾādām e a un commento del narratore. In questo post ci soffermeremo sull’azione di Dio.
L’azione di Yhwh Elohim: vv. 21-22
²¹ Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse uno dei lati di lui e richiuse la carne al posto di lei. ²² Il Signore Dio formò con il lato, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
וַיַּפֵּל֩ יְהוָ֨ה אֱלֹהִ֧ים ׀ תַּרְדֵּמָ֛ה עַל־הָאָדָ֖ם וַיִּישָׁ֑ן וַיִּקַּ֗ח אַחַת֙ מִצַּלְעֹתָ֔יו וַיִּסְגֹּ֥ר בָּשָׂ֖ר תַּחְתֶּֽנָּה׃
וַיִּבֶן֩ יְהוָ֨ה אֱלֹהִ֧ים ׀ אֶֽת־הַצֵּלָ֛ע אֲשֶׁר־לָקַ֥ח מִן־הָֽאָדָ֖ם לְאִשָּׁ֑ה וַיְבִאֶ֖הָ אֶל־הָֽאָדָֽם׃
Tutto ha inizio con un sonno/torpore che Yhwh Elohim fa calare sul terrestre (2,21a), dopo la constatazione della frustrazione di non aver trovato un aiuto «come di fronte» (v. 20b). Di conseguenza il terrestre è escluso dall’azione divina e ignora tutto quello che sta accadendo mentre dorme. C’è solo Yhwh Elohim e solo lui opera! Il vocabolo tardēmāh, «sonno» o «torpore», non indica il sonno normale quanto un ‘sonno speciale’ prodotto da Dio e connesso con sue azioni straordinarie (cf. Gen 15,12; 1 Sam 26,12)1. In questo modo ʾādām è passivo ed estraneo all’azione divina come all’inizio del capitolo: non è lui a «fabbricarsi» la donna su sua misura o secondo i propri desideri. Non vede Dio all’opera, per cui non potrà mai «possedere» la persona ‘altra da sé’ che gli resterà sempre un po’ misteriosa2. In questo senso si sta realizzando quanto esprimeva la preposizione neged nella sua accezione di ‘contro’3. Solo «in Dio» il terrestre potrà conoscere veramente la donna, e viceversa!
Dopo il sonno fatto scendere sul terrestre, Yhwh Elohim, come un chirurgo, gli «prende/toglie» (lāqaḥ) una delle costole e con essa «costruisce» (banâ) una donna (ʾiššāh, v. 22a). In precedenza la «materia grezza» da cui Yhwh Elohim aveva tratto le creature era la terra, qui invece è ʾādām. C’è quindi un salto qualitativo che sarà messo ancor più in evidenza dal fatto che quando Yhwh Elohim la presenterà al terrestre, questi per la prima volta parlerà in discorso diretto4. Ma procediamo con ordine.
Lungo la storia dell’interpretazione, sia ebraica che cristiana, si è letto nella modalità con cui la donna è stata creata il motivo della sua svalutazione rispetto all’uomo maschio. La donna è l’eterna seconda perché tratta dalla carne dell’uomo, quindi un suo derivato e da lui dipendente. Ma è proprio così?
Il lemma ebraico selem, reso volgarmente con «costola», significa invece «lato»: il lato dell’arca (Es 25,12), della tenda (Es 26,20), del tempio (1 Re 6,5; Ez 41,5), di una montagna (2 Sam 16,13); oppure ognuno dei due battenti di una porta (1 Re 6,34). La versione greca della Settanta traduce con πλευρά, «lato del corpo». Di conseguenza Yhwh Elohim preleva un lato del terrestre indifferenziato dividendolo in due oppure, come suggerisce Rashi, lo taglia in due5.
Tolto il lato da ʾādām, il narratore annota con precisione che Dio sutura la «carne» (basar) sotto di lei?
Dopo aver tolto l’essere divino ricuce la carne del lato mancante, resta così una cicatrice di quanto operato. A questo punto Yhwh Elohim passa a «costruire» (bānâ) la donna. Il verbo impiegato bānâ «costruire», e non i verbi «creare», «fare» o «plasmare» nelle lingue semitiche sorelle, come l’accadico e l’ugaritico, era il verbo usuale per esprimere un atto creativo, mentre nell’AT ricorre solo qui e in Am 9,6: «Egli costruisce ( bānâ) nei cieli il suo palazzo e fonda la sua volta sulla terra…». Qui il verbo indica che sta avvenendo una modifica sostanziale e significativa.
Formata la donna Yhwh Elohim veste i panni del paraninfo e la presenta al terrestre (v. 22b). La frase ebraica è curiosa: «e fece veneri lei dal terrestre». L’impiego del verbo boʾ alla forma causativa (hifil) ricorre in contesti di offerte sacre. Di conseguenza la donna è per l’uomo un dono e viceversa. Forzando un po’ la lettura potremmo affermare che la relazione fra i due lati del terrestre, quello tolto e quello rimasto, è un dono.
Duplice mancanza
Con la divisione del terrestre indifferenziato e la costruzione della donna Yhwh Elohim fa sorgere l’altro/a nella sua differenza. Quest’ultima, poi, si inscrive su una duplice mancanza: quella della conoscenza e quella dell’integrità.
Dalle parole del narratore si arguisce che nessuno dei due partner o “lati” dell’ʾādām ha accesso alla conoscenza della propria origine né a quella dell’altro. Di conseguenza la possibilità di una relazione in cui uno stia di fronte all’altro (cf. 2,18) va di pari passo con una “perdita” fondamentale che riguarda il sapere.
Circa l’integrità dal momento che viene preso un lato, si produce una “perdita”, una ferita palesata laddove la carne è stata suturata. Né l’uno né l’altro, pertanto, sarà «completo», cioè basterà a se stesso. È la stessa azione divina a consacrare questa “perdita” con la differenziazione della donna, ragion per cui l’uno non potrà essere definito a partire dall’altro perché sarà sempre come uno di fronte a lui.
Mancanza, perdita rimandano al limite. Già in precedenza lo si era incontrato a proposito del dono del cibo. Là esso si inscriveva nel contesto del dono di tutti gli alberi. Allo stesso modo in questi versetti per il terrestre indifferenziato, solo la duplice perdita, espressa simbolicamente dal sonno e dalla cicatrice, rende possibile il dono della donna. La mancanza apre a un dono che è capitale per la vita in quanto permette di superare l’isolamento mortale, dettato dalla solitudine registrata per ben due volte (cf. vv. 18.20).
Il sorgere della relazione
Con un racconto, solo apparentemente semplice e puerile, il narratore indaga il sorgere della relazione umana, toccandone gli elementi costitutivi. Infatti, qualsiasi relazione fra esseri umani da un lato si inscrive in un dono reciproco, dall’altro ha come punto di partenza una duplice mancanza riguardo al conoscere e all’integrità individuale. L’immagine del sonno esprime simbolicamente un dato imprescindibile: l’altro sfugge «radicalmente» in ciò che fonda la sua individualità e questo rinvia alla propria immagine di essere “mancante”. La sua differenza insegna che non si sa tutto o che comunque non tutto dell’altro!
La relazione uomo e donna, e non solo, dovrà confrontarsi certo con la duplice mancanza, ma il narratore sacro sottolinea altresì che tale relazione va vissuto all’interno del progetto di Dio, vale a dire nella dimensione del dono reciproco. Vengono così superati quei miti o ideologie di allora (e di oggi) che presentano l’uomo maschio come un “conquistatore” e la donna come una “seduttrice”, per approdare all’atteggiamento della gratuità e dell’accoglienza reciproca. Il tu che sta di fronte ad ʾādām (ad ‘ogni’ ʾādām, sia maschio che femmina) è sempre e comunque dono di Dio!
- Cf. Wenham, Genesis 1-15, 69. ↩
- Cf. G. Von Rad, Genesi (Antico Testamento 2/4), Brescia 1978, 103. ↩
- Cf. il post dedicato. ↩
- Cf. Trible, The rhetoric of sexuality, [Kindle edition] posizione 1961. ↩
- «Disse R. Shemuel b. Nahman: Quando il Santo, Egli sia benedetto, creò l’uomo, lo creò bifronte, lo segò e ne risultarono due schiene, una di qua e una di là» Beresit Rabba VIII,1. ↩