HomeCommento a GenesiGen 2,8-15: il giardino di Eden – 01

Gen 2,8-15: il giardino di Eden – 01

Nella creazione del terrestre il narratore ha sottolineato come esso non sia un self-made man, ma invece abbia un rapporto stretto con «il suolo/natura» e con Yhwh Elohim da cui ha ricevuto il «soffio di vita». Questa peculiarità abbozza fin dalla sua creazione trova una prima conferma nella relazione messa in piedi da Yhwh Elohim tra il giardino e il terrestre.

⁸ Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. ⁹ Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.

Chi ha plasmato il terrestre è colui che al v. 8 pianta (nāṭaʿ) un giardino. Se prima Yhwh Elohim impersonava un vasaio che plasmava la sua creatura dalla polvere del suolo, ora è un contadino che pianta un giardino. Il termine ebraico gan deriva dal verbo ganan, «proteggere». Quindi il giardino è uno spazio chiuso il cui recinto protegge coloro che vi abitano. Esso è collocato «in Eden, a oriente». Molto si è scritto su questo luogo. Sono due le indicazione topografiche la prima è «in Eden» la seconda «a oriente». È chiaro che la frase preposizionale «in Eden» qualifica non il nome del giardino ma il luogo dove si trova il giardino. Tale località è poi «ad oriente». Ad oriente rispetto a che cosa o a chi? Rispetto al narratore che racconta, quindi ad oriente di Israele. In Gen 1 – 11 le ricorrenze del vocabolo «oriente» saranno più di una e in contesti negativi.

Il termine «Eden» deriva dal verbo ʿādan «essere florido» o «lussureggiante», per estensione il sostantivo significa «delizia». Il terrestre quindi non è collocato nella landa desolata di cui si è parlato nel prologo (cf. 2,5-6), ma in un luogo dal nome evocativo, «delizia», collocato ad oriente. Probabilmente il narratore immagina un specie di recinzione lussureggiante in mezzo a una pianura deserta. Così appare un luogo «di delizie». I traduttori greci parleranno di «paradiso»1.

L’azione successiva è quella di «collocare» il terrestre nel giardino (v. 8b). Non deve sfuggire che tra l’azione del piantare e quella del collocare c’è il lasso intermedio del tempo della crescita del giardino di cui il narratore non dice nulla. Raccontando in questo modo le cose, egli spinge il lettore a ritenere che il soggetto agente è un essere straordinariamente potente.

Al v. 9 il narratore descrive sommariamente l’ambiente esuberante di vita del giardino. È sempre Yhwh Elohim il protagonista perché, secondo il modello della differenziazione a partire dalla continuità con la terra/suolo, fa «spuntare», ṣāmat, «dalla terra/suolo» (min-hāʾădāmâ) ogni tipo di albero. Il «terrestre» e le piante hanno una comune origine ma questo non significa comune identità e qualità. Infatti, si precisa subito che le piante sono in funzione della creatura terrestre: «gradito alla vista e buono da mangiare» (2,9a). Qui sono coinvolti i sensi della vista e del gusto, mentre in precedenza vi era stato l’olfatto (cf. 2,7).

Riassumendo, quindi, sono tre le cose in comune tra mondo umano e mondo vegetale: il Creatore; la materia di provenienza («terra/suolo»); il mondo umano recepisce quello vegetale attraverso la «delizia» dei sensi. Più avanti ne scopriremo un quarto.

Tra tutti gli alberi rigogliosi e carichi di frutti, due attirano l’attenzione di chi racconta: «l’albero della vita» (wᵉʿēṣ haḥayyîm), collocato al centro del giardino e che stabilisce una certa connessione con i versetti precedenti grazie all’«alito di vita» (hayyîm), e quello della conoscenza del bene e del male (wᵉʿēṣ haddaʿat ṭôv wārāʿ) di cui il narratore non dà la posizione; lo farà più avanti la donna nella sua risposta al serpente, ma il lettore avrà ben mondo di dubitarne perché rispecchia la sua percezione2.

Di conseguenza il «terrestre» non si costruisce né si conquista il suo spazio, ma gli viene donato. Questo dono comporterà anche una responsabilità declinata come custodia e come lavoro. Da tutto ciò consegue che la vita umana è un dono di Dio e l’uomo non la possiede, essa poi è una realtà ludica e nello stesso tempo precaria.

La cura del giardino

Per quanto riguarda il giardino sono due le affermazioni che il narratore evidenzia: la prima riguarda l’acqua, la seconda l’affidamento al terrestre della cura del giardino.

Il narratore, con una digressione di ben quattro versetti, attira l’attenzione del lettore sull’acqua.

¹⁰ Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. ¹¹ Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla, dove si trova l’oro ¹² e l’oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d’ònice. ¹³ Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d’Etiopia. ¹⁴ Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate.

Vi è il richiamo alla tensione già incontrata nell’introduzione, dove da un lato si diceva che Yhwh Elohim non aveva fatto piovere (cf. 2,5), dall’altro si affermava la presenza di una polla sorgiva che, scaturente da sotto, bagnava la faccia della terra (cf. 2,6).

Con i fiume le tre parti che costituivano la cosmologia semitica sono toccate dall’acqua: da sopra c’è la pioggia; il fiume in superficie; da sotto terra la sorgente. Tutta questa prodigiosa abbondanza d’acqua afferma una sola cosa: la vita e la fecondità di quel giardino3.

Lavorare e custodire

La secondo affermazione è che il giardino viene affidato alle cure della creatura terrestre:

Yhwh Elohim prese dunque il terrestre e lo fece restare nel giardino per lavorarlo e per custodirlo» (2,15b).

 וַיִּקַּ֛ח יְהוָ֥ה אֱלֹהִ֖ים אֶת־הָֽאָדָ֑ם וַיַּנִּחֵ֣הוּ בְגַן־עֵ֔דֶן לְעָבְדָ֖הּ וּלְשָׁמְרָֽהּ׃

L’ultima azione del primo settenario specifica le relazioni che da lì in avanti dovranno esserci tra il terrestre e il giardino: lavorarlo e custodirlo. Al terrestre viene affidata una responsabilità nei confronti del giardino e questo lo toglie dalla totale passività iniziale, nello stesso tempo trova soluzione la seconda mancanza denunciata nell’antefatto: non c’era il terrestre per coltivare la terra (cf. 2,5b)4.

Con l’incarico di lavorare e custodire il giardino il terrestre riceve da Yhwh Elohim un «potere» sul luogo dove è stato messo. È il quarto legame tra il mondo umano e quello vegetale: all’essere umano è chiesto di «dominare» sul mondo vegetale. Tale dominio si articola nei verbi «lavorare» e «custodire».

Il «lavoro», ʿăvōdâ in ebraico, non è affatto considerato una punizione da parte degli dèi, come in alcuni miti del Vicino Oriente Antico5, né è opera prettamente riservata agli schiavi, come nella cultura greco-romana, poiché è azione costitutiva dell’essere terrestre. Vi è in esso qualcosa che afferisce alla sfera di Dio. Infatti, in ebraico il verbo «lavorare», ʿāvad, indica il servizio che il popolo è chiamato a rendere a Dio come conseguenza della liberazione dall’Egitto e del patto stipulato al Sinai (cf. Gs 24,14-24)6, bensì una partecipazione all’opera creativa del Creatore.

L’altro verbo «custodire», šāmar in ebraico, oltre al senso profano di «guardare», «tenere sotto osservazione» (cf. Gen 4,9; 30,31), è comunemente usato per indicare l’osservanza e la custodia gelosa della Torâ, specialmente dei comandamenti (cf. Gen 17,9; Lv 18,5; Es 19,5; Dt 5,1.12; Ez 17,14; Sal 119,44).

Infine, i due verbi nel testo ebraico funzionano come un’endiadi: lavorare custodendo, per indicare che il compito dell’umanità è custodire qualcosa che non gli appartiene e che non può arrogarsi il diritto di reputarla una proprietà privata, magari deturpandola o sciupandola; oppure con custodire lavorando, per sottolineare che la custodia non è un dolce far nulla ma implica anche la capacità trasformativa. Resi singolarmente o con un’endiadi i due verbi non connotano alcun tipo di sfruttamento e di rapina delle risorse del giardino, al contrario esprimono idea di cura e di attenzione, vale a dire contribuiscono alla stessa bellezza e delizia del giardino.

Già si è detto che la creazione è un processo e non un dato di fatto. Per quanto riguarda il «terrestre» questo processo si era configurato come distinzione dalla terra ma senza opposizioni alla terra; ora si presenta come sovranità e dominio sulla terra/giardino ma senza tirannia. Si delinea una specie di ordine gerarchico con al vertice il terrestre che non scade in oppressione e sfruttamento. Altri tasselli saranno aggiunti.


  1. Il termine greco παράδεισος deriva dal persiano pairidaēza, «recinto circolare» (passato anche nell’ebraico pardēs). È composto da pairi, «intorno», e daēza, «muro»; in greco περί «intorno» e τεῖχος «muro».
  2. Molto si è scritto a proposito di quanti alberi ci siano al centro del giardino. Questo è stato letto come pretesto per affermare la diversità delle fonti. Prima di avventurarsi in supposizioni fantasiose è bene domandarsi: chi dice che cosa? In Gen 2,9 il narratore, che fino a questo momento si è mostrato affidabile, fa un’affermazione chiara: al centro del giardino c’è solo «l’albero della vita». La donna, dopo le parole distorte del serpente o sotto il suo effetto, afferma che l’albero in questione – quello del bene e del male – è al centro del giardino. Questa è solo una sua supposizione, anzi una sua percezione che mostra come le parole del serpente in lei abbiano fatto breccia tanto che ora tutto ruota, come ad un centro, attorno «all’albero del bene e del male».
  3. I vv. 10-14 sono stati considerati sia una aggiunta tardiva a un testo precedente sia il contrario, cioè l’inserimento di un’antichissima tradizione in un testo narrativo posteriore. L’argomento principale a sostegno dell’antichità è la descrizione del fiume Tigri che scorre ad est (oriente) della città di Assur (v 14). Ciò attesta che la nota geografica risale all’epoca in cui Assur era capitale dell’Assiria.
  4. Si potrebbe osservare che qui è chiesto all’uomo di coltivare e custodire uno spazio ben definito, quello del giardino. In 3,23 all’uomo spetterà coltivare la terra in quanto tale.
  5. Nei miti di Enuma elish e di Atrahasis l’umanità è creata per lavorare e così alleviare la fatica degli dèi. Per i testi cf. G. Ravasi, ed., L’Antico Testamento e le culture del tempo. Testi scelti (Studi e ricerche bibliche), Roma 1990.
  6. Cf. il testo di G. Auzou, Dalla Servitù al servizio. Il libro dell’Esodo (Lettura pastorale della Bibbia), Bologna 1976.

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