Supplica dall’angoscia
Una formula stereotipata, che si ritrova quasi identica nel Sal 38,2, apre il salmo e detta il nesso tra delitto e castigo: «Jhwh, non colpirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore». Segue la supplica vera e propria che forma il corpus del Salmo (vv. 3-8 ) articolata in tre strofe: la sofferenza psicofisica (vv. 3-4) – l’implorazione (vv. 5-6) – la sofferenza psicofisica (vv. 7-8). Il salmista fa ricorso a un simbolismo che evidenzia la concretezza della preghiera biblica. Si tratta del paradigma del corpo. Tre organi sono coinvolti nel ritratto del paziente: il nefesh nel v. 4, reso spesso nelle traduzioni con «anima», «spirito» o «essere», le ossa nel v. 3 e gli occhi nei vv. 7-8.
Il termine nefesh indica letteralmente il «respiro», la «gola» e per estensione la vita stessa. Affermare che il nefesh («anima») è tutta sconvolta, significa che l’angoscia e il male hanno attanagliato l’intera vita dell’orante. Le ossa indicano la struttura dell’essere fisiologico e quindi, se queste tremano sotto la vampe della febbre, è come se tutto l’organismo fosse sottoposto a una forza distruttrice. Gli occhi si affievoliscono a causa del pianto dirompente tanto che sembrano consumarsi. Vi è poi l’iperbole dell’inondazione delle lacrime che paradossalmente trasformano il letto del malato in una sorta di palude.
Da questa situazione dolorosa sale a Dio un grido di protesta: «Ma tu, Signore fino a quando…?» (v. 4). Esso racchiude tutta la disperazione dell’orante e nello stesso tempo la sua persistente fiducia in Dio. Tutto nasce da un certezza che l’ultima parola di Dio non può essere mai quella dell’abbandono e della punizione. Ecco perché il salmo si conclude con un improvviso, ma solo per noi occidentali, radicale mutamento di situazione e di tono: il lamento lascia il posto alla certezza dell’esaudimento.