Invito alla gioia: Is 66,10-14

¹⁰Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. ¹¹Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria.
¹²Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. ¹³Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. ¹⁴Voi vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».

Il passo di Isaia, che costituisce la prima lettura della XIV domenica del tempo ordinario ciclo C, è tratto dalla terza parte del libro profetico (Is 56 – 66). Essa la si può definire come una raccolta di oracoli composti probabilmente dopo il ritorno dall’esilio babilonese. Il nostro testo è situato nell’ultima sezione del libro, dove il profeta annuncia una nuova creazione (Is 65,17 – 66,24).

L’attacco del brano è un triplice invito alla gioia – «Rallegratevi, esultate, sfavillate di gioia…» – con Gerusalemme e per Gerusalemme. La promessa di Dio di trasformare il lutto in gioia (60,20; 61,1-2; 65,18-19) ora è finalmente divenuta realtà: la donna abbandonata perché sterile ha partorito nel dolore un popolo nuovo (49,19-50,3). Come non danzare di gioia?

Il testo pone tuttavia due condizioni per la piena partecipazione al giubilo.

La prima è amare: soltanto chi ama può gioire, perché percepisce la vita dell’altro come propria.

La seconda è la partecipazione al lutto. Soltanto coloro che hanno perseverato nell’amore anche nelle ore buie della distruzione e dell’esilio; soltanto coloro che sanno essere-con… nelle ore dolorose del parto, potranno gioire per la creatura nuova generata alla vita.

La ragione della gioia si radica nella contemplazione dell’opera di Dio, capace di ripopolare una città deserta, non solo grazie al ritorno dei propri figli, ma anche per l’arrivo di fedeli provenienti da ogni nazione (cfr. 65,19).

La gioia diviene allora segno della capacità di condividere il cuore magnanimo di Dio, superando la gelosia della propria “elezione” e godendo dell’apertura a tutti i popoli della terra del progetto salvifico del Dio di Israele. Diventa chiaro così perché la gioia è condizione per partecipare ai beni: soltanto la collaborazione gioiosa al progetto di salvezza del “proprio” Dio permette di ricevere in pienezza la salvezza. Utilizzando un linguaggio figurato, non si tratta più soltanto di succhiare, ma di saziarsi; non soltanto di ‘poppare’, ma di appagarsi totalmente (v. 11).

Il v. 12 contempla la causa ultima della gioia e dell’appagamento sperimentato da Gerusalemme: l’agire di Dio. Egli convoglierà tutti i popoli verso la città santa, non più come distruttori, ma come parte del popolo dell’alleanza. Lo shalom, la pace, indica in questo contesto la pienezza della relazione con Dio divenuta ormai patrimonio universale.

Nella seconda parte del v. 12, coloro che ritornano potranno nutrirsi, essere portati sul fianco ed essere accolti sulle ginocchia. Il poeta-profeta non specifica chi compirà queste azioni: potrebbe essere la madre Gerusalemme oppure Dio stesso, a cui il v. 13 applica la metafora materna. Mi piace seguire la seconda pista interpretativa: il Signore stesso avrà cura del suo popolo e, attraverso il gesto di prenderlo sulle ginocchia, lo riconoscerà a pieno titolo come “figlio legittimo”.

A questo figlio riconosciuto e amato Dio offre consolazione: non si tratta di un sentimento, ma della salvezza sperimentata nella restaurazione del rapporto di figliolanza. Nella concezione teologica d’Israele, l’esilio assume la connotazione della proclamazione dell’abbandono di Dio.

Per le colpe del popolo Dio ha abbandonato i suoi figli nelle mani dei nemici. Ma proprio la sofferenza rivela ora un volto nuovo di Dio. Per descriverlo il profeta utilizza il legame umano più profondo: quello con la propria madre. In una relazione nuova anche il rapporto figlio- padre, a cui il popolo si è appellato in Is 63,16 e 64,7, è superato da un legame ontologico, il legame dell’origine.

La promessa di Dio sarà verificabile: «voi lo vedrete». Il popolo fedele vedrà la salvezza operata da Dio: vedrà il ripopolamento miracoloso della città; vedrà il dono della salvezza elargita a tutti i popoli; vedrà Dio in azione nella propria esistenza. Il Dio che ha promesso di stare con gli umili ed i contriti per ravvivare il loro cuore (57,12) confermerà la sua promessa (58,11) rinvigorendo le ossa dei suoi fedeli, ridonando loro la giovinezza perduta.

Tutto questo sarà possibile perché «la mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi ed il suo sdegno, la sua collera ai suoi nemici» (v. 14). Il versetto, purtroppo assente dal nostro testo liturgico, è estremamente importante: l’umanità non è più divisa tra eletti e pagani, tra Israele e le nazioni, ma tra servi e nemici del Signore. Il criterio di diversificazione non sarà più l’appartenenza etnica o cultuale, ma il rapporto di ognuno con Dio.

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