Il salmo 128, il nono della lista, proclama «benedetto» l’uomo che teme il Signore e ne illustra i benefici. Egli gode di salute, di benessere materiale e spirituale, di felicità, di una buona e felice famiglia. Inoltre con la benedizione di Dio avrà longevità, numerosa prole e vedrà la prosperità di Gerusalemme, godendo della pace dell’intero Israele.
La composizione poetica ispira sentimenti di pace, gioia e serenità. Presenta un delizioso idillio pieno di semplicità e freschezza. È un quadro di felicità familiare, di una modesta famiglia nella sua intimità. In questa famiglia si vive la pietà (adorazione religiosa, osservanza delle leggi), nel lavoro manuale (che in Israele era un onore anche per un intellettuale) e nell’amore filiale e coniugale.
La struttura del salmo si presenta bipartita: la proclamazione di una beatitudine (v. 1b), sviluppata e descritta nei vv. 2-4; un doppio augurio finale carico di benedizioni (vv. 5-6).
Vie di felicità
Il salmo si apre, dopo il titolo, con l’espressione «beato l’uomo che teme il Signore» (cf. Sal 1,1; 112,1; 119,1). Il timore del Signore non è la paura ma bensì «il sentimento del mistero» (Stancari) con cui il cuore umano si apre a Dio nella lode. Tale sentimento proprio perché risposta all’alleanza di Dio comporta l’amore rispettoso e riverente verso di lui (cf. Dt 10,12-13; Pr 1,7). La frase seguente, «che cammina nelle sue vie», raffigura un uomo attivo, che affronta il cammino quotidiano con pazienza e tenacia ricercando la volontà di Dio. Le «vie», infatti, sono simbolicamente i voleri divini, come suggeriscono altri salmi (112,1, 115,11-14), oppure il libro dei Proverbi (Pr 8,32). Esse conducono alla vita (Sal 16,11) e l’uomo deve percorrerle con umiltà accompagnandosi a Dio stesso. L’uomo, che così cammina, sperimenta nel profondo del suo cuore una serenità e una felicità che hanno origine divina. È beato!
Nell’indicare la beatitudine (vv. 2-4) il salmista descrive con entusiasmo i benefici della fedeltà al Signore, facendo ricorso all’ideale di famiglia tipico dell’Antico Testamento. Il marito, uomo giusto e timoroso, vedrà i frutti del suo lavoro, sarà felice e avrà benessere (v. 2). Letteralmente il testo si esprime così: «Della fatica delle tue mani mangerai. Beato te e [sia] bene a te». La felicità di quest’uomo si radica sul fatto che egli trarrà di che vivere dal suo lavoro, finché avrà forza di svolgerlo, non dovendosi approfittare degli altri. La sorte dell’uomo giusto è diversa da quella dell’empio, che viene punito e rigettato da Dio (Kimchi. Cf. Gen 3,19; Sal 127,2).
Vite e olivo
La benedizione del Signore dall’uomo giusto si allarga alla moglie che è paragonata a una vite feconda, per poi passare ai suoi figli, assimilati a germogli di ulivo (v. 3). La vite e l’ulivo, sono piante molto comuni in Palestina e normalmente cariche di frutti. Per questo nell’immaginario collettivo israelita sono diventate simboli di fecondità specialmente di quella proveniente dall’intimità familiare. Nel profeta Ezechiele, ad esempio, la moglie è paragonata a una vite piantata vicino a corsi d’acqua: la situazione ideale per portare frutto (Ez 19,10). Nel profeta Isaia e nel Cantico dei Cantici la vite diviene immagine della gioia dell’amore (cf. Is 5; Ct 1,6; 2,13.15; 7,8-10.13; 8,11-12). Il vigneto e l’uliveto, che fanno la fortuna materiale del contadino orientale, diventano un simbolo e un prolungamento del benessere spirituale, che l’uomo giusto possiede all’interno della sua casa (S. Rinaudo).
Il paragone della donna a una vite (v. 3) è dettato dall’uso presente nella cultura israelitica di piantare la vite all’interno della propria abitazione (Kimchi). Quando questa cresce, se ne fanno uscire i tralci al di fuori, alla luce del sole, mentre le sue radici rimangono all’interno della casa. La donna è paragona a questa vite che con la bellezza delle sue foglie e la dolcezza dei suoi grappoli abbellisce e addolcisce il focolare domestico. Si riprende il canto del libro dei proverbi sulla donna saggia, padrona incontrastata della casa, di cui tutti i familiari possono andare orgogliosi e fieri perché con sagacia e oculatezza gestisce il patrimonio sia materiale che spirituale (cf. Pr 31).
I figli sono invece paragonati all’ulivo, pianta sempreverde, così questi non saranno mai privi di splendore e di bellezza, né di opere buone. Il poeta usa l’immagine della mensa: «intorno alla tua mensa» (sabîb lešulḥaneka), per richiamare l’unità della famiglia. Qui si ritrovano genitori e figli a consumare il pane, guadagnato dalla fatica dell’uomo e dato dalla provvidenza di Dio. La mensa infatti è l’apice e una sintesi tra il lavoro, la vita quotidiana e il dono di Dio. Essa collega anche l’uomo agli uomini per i suoi molteplici riflessi e implicazioni.
Un mondo benedetto
Nei vv. 5-6 gli orizzonti si allargano e la beatitudine del singolo diventa benedizione di carattere generale, ricade sull’intera nazione.
Si inizia con l’espressione «ti benedica il Signore da Sion!» (5a), formula liturgica che introduce la benedizione (cf. Nm 6,23). Dio, che è sempre la fonte della benedizione, benedice «da Sion», cioè dal santuario che è in Sion/Gerusalemme, sede della sua presenza. Nei vv. 5b-6 l’espressione «possa tu vedere» si ripete due volte. Si tratta probabilmente di una duplice benedizione: la prima (v. 5b) riguarda «la prosperità di Gerusalemme» (aspetto collettivo), vale a dire la comunità degli abitanti della città santa (cf. Sal 122,7-9; Tb 13,14) e questo non per un giorno o per un anno solo. La benedizione di Dio, infatti, abbraccia l’intero arco della vita del fedele («per tutti i giorni della tua vita»). La seconda benedizione (v. 6) riguarda la fecondità a livello personale e familiare («i figli dei tuoi figli»). Nella mentalità biblica è segno di longevità il «vedere» i nipoti, che sono la «corona dei vecchi» (Pr 17,6). I figli dei figli (i nipoti) stanno qui a indicare le generazioni future. Essi sono simbolo della storia futura. Infatti alle mani del Signore appartiene il futuro ed Egli saprà manifestarsi perché i figli portino a compimento l’opera iniziata da lui col suo provvidenziale disegno (cf. Stancare).
Šalom
La finale del salmo ha l’augurio liturgico: «pace su Israele» (cf. Sal 125,5). Come un’onda che si allarga sempre più il salmo apre l’orizzonte della benedizione. Dalla prosperità di Gerusalemme si passa alla pace (šalom pienezza di beni) dell’intero Israele. Perciò l’uomo che teme il Signore sarà benedetto nel suo lavoro, nella sua famiglia, e nell’intero suo popolo, partecipando della sua benedizione.
Con molta oculatezza osserva padre Turoldo che questo poema sapienziale, fiorito molto probabilmente all’interno di una casa/famiglia, sfocia nella liturgia pubblica del tempio. Qui i sacerdoti benedicendo quella famiglia, vedono in essa il segno della protezione divina e della pace/šalom (v. 5) su tutto l’Israele fedele. In questo modo con l’invocazione di pace finale «si stabilisce un legame più stretto tra la vita dei pellegrini, figli d’Israele, e la loro città madre, Sion» (Lorenzin).
La benedizione con cui è benedetto l’uomo giusto che teme il Signore inserisce il pellegrino nella storia della salvezza. Il salmo esprime il profondo anelito di vedere il Signore e il Messia. Per noi cristiani questo volto atteso ha assunto le forme di Gesù di Nazareth, nostro Signore e Redentore.
Molto apprezzato. Ho trovato di estremo interesse la notizia sull’uso presente nella cultura israelitica di piantare la vite all’interno della propria abitazione (Kimchi).
Le chiedo se per caso la notizia è reperibile in:
Commento ai Salmi
Autori:David Kimhi e Luigi Cattani
Editore:Città Nuova Editrice, Roma e 1991
Sono un vecchio studioso (classe 1940) del Cantico dei Cantici. Grazie e buon lavoro.
Certo l’avevo letto in quel testo, ma non ricordo la pagina. Purtroppo non ho con me il libro.