Leggendo il libro del profeta Geremia quello che colpisce è la lotta interiore che l’uomo di Dio vive: egli è come diviso tra la denuncia senza appello del peccato con la conseguente distruzione e la compassione a cui fa seguito il perdono. Nel libro profetico tutto è reso con toni forti e immagini ardite che si scolpiscono nell’immaginario del lettore. Di seguito provo a darne un piccolo assaggio.
La radice del peccato: l’allontanamento da Dio
Sin dall’inizio della sua attività profetica Geremia, seguendo l’esempio dei suoi predecessori, denunciò con particolare veemenza i peccati del popolo di Giuda: l’ingiustizia (cfr. Ger 5,28, 7,6), l’oppressione dei poveri (cfr. Ger 2,4; 5,26-27), l’immoralità (cfr. Ger 5,7-8; 9,1), la magica fiducia riposta nell’edificio del tempio di Gerusalemme (cfr. Ger 6,20; 7,9-15.21-22), la sicurezza fondata sulle fortificazioni militari (cfr. Ger 21,13; 22,23). Geremia non si sofferma tanto sulla descrizione particolareggiata delle colpe, ma evidenzia l’aspetto fondamentale, che consiste nell’abbandono del Signore, nel tradimento e nell’apostasia. Il profeta parla spesso di idolatria (cfr. Ger 2,13.20), di ribellione e infedeltà, di menzogna. Tutte queste categorie hanno un comune denominatore: descrivere l’unico crimine di cui si è reso colpevole il popolo, l’allontanamento dal Signore. Geremia ritiene poi che la totalità del popolo sia coinvolto in questa fondamentale infedeltà.
L’infedeltà si comprende se si tiene presente il rapporto che, secondo il profeta, Dio ha stabilito con il suo popolo: il Signore si è mostrato padre di Israele (cfr. Ger 3,4.14.19; 31,3.9.20), suo sposo (cfr. Ger 2,1; 3,1; 30,17), re-pastore (cfr. Ger 31,1), e redentore (cfr. Ger 31,11); Dio ha concluso un’alleanza con il popolo (cfr. Ger 11,3; 14,21; 31,31), per cui Israele era tenuto a riconoscere il suo Dio e a temerlo:
«Si! due malvagità ha commesso il popolo mio:
ha abbandonato me, sorgente di acqua viva,
per scavarsi cisterne, cisterne squarciate che non contengono acqua» (Ger 2,13)
La depravazione è talmente grave che ha prodotto una corruzione dell’animo, ha prodotto nel popolo una disposizione ostinata verso il male. Israele ha un cuore scellerato e «incirconciso» (cfr. Ger 3,17; 7,24). Il male sembra essere diventato un tutt’uno con il popolo, per questo la predicazione del profeta si scontra con il tenace rifiuto del popolo che non ha mai dato segno alcuno di pentimento:
«Cambia forse un Etiope la sua pelle
o un leopardo la sua picchiettatura?
Allo stesso modo, potrete fare il bene
anche voi abituati a fare il male?» (Ger 13,23).
«Il peccato di Giuda è scritto
con uno stilo di ferro,
con una punta di diamante
è inciso sulla tavola del loro cuore
e sugli angoli dei loro altari» (Ger 17,1).
Giudizio e castigo
La denuncia del peccato è collegata con l’annuncio del giudizio punitivo di Dio. Come il crimine è totale, così la sanzione sarà completa e definitiva. Il profeta ripete come un ritornello la predicazione della fine del popolo e della monarchia, simboleggiata dalla soppressione del tempio e dall’occupazione di Gerusalemme da parte del re di Babilonia Nabucodonosor (cfr. Ger 1,14-16; 4,27 ecc.). In questo modo Dio manifesta la sua ira, cioè il suo giusto atteggiamento di fronte al peccato. Il giudizio di Israele coinvolge il mondo intero perché colpisce ogni vivente. Geremia è drastico annunciando che Dio non userà misericordia nel dare corso al giudizio:
«Io li frantumerò uno contro l’altro, cioè i padri e i figli insieme – oracolo del Signore -, non avrò pietà né compassione né misericordia per la loro distruzione» (13,14).
Nabucodonosor metterà a ferro e fuoco la città di Gerusalemme deportando i suoi abitanti e uccidendo il re Sedecia con i sui figli.
La decisione divina di compiere il giudizio è categorica. Ne è prova lo sconcertante divieto fatto a Geremia di intercedere per le colpe del popolo e così stornare il castigo.
«Tu poi, non pregare per questo popolo, non innalzare per esso suppliche e preghiere né insistere presso di me, perché non ti ascolterò» (Ger 7,16).
Dio sembra quasi temere che l’implorazione del profeta possa indurlo a perdonare:
«Tu poi, non intercedere per questo popolo, non innalzare per esso suppliche e preghiere, perché non ascolterò quando mi invocheranno nel tempo della loro sventura» (Ger 11,14).
«Il Signore mi ha detto: “Non intercedere a favore di questo popolo, per il suo benessere. Anche se digiuneranno, non ascolterò la loro supplica; se offriranno olocausti e sacrifici, non li gradirò; ma li distruggerò con la spada, la fame e la peste”» (Ger 14,11-12).
Geremia è invitato ad astenersi da qualsiasi manifestazione di lutto, perché la catastrofe sarà repentina e totale. Dio ha ritirato dal suo popolo ogni favore, ogni sentimento di compassione e di misericordia:
«Si! così dice il Signore: “Non entrare in una casa dove si fa un banchetto funebre, non piangere con loro né commiserarli, perché io ho ritirato da questo popolo la mia pace – dice il Signore – la mia benevolenza e la mia compassione”» (Ger 16,5).
La compassione di Geremia
Nonostante il divieto di perorare per il popolo, Geremia prega il Signore per i suoi concittadini umiliati. Egli non aveva mai perduto la speranza che il popolo potesse tornare sui suoi passi, questo moltiplicava i suoi appelli a ripudiare la superbia e ad ascoltare la voce di Dio:
«Ascoltate e porgete l’orecchio, non montate in superbia,
perché il Signore parla.
Date gloria al Signore vostro Dio,
prima che venga l’oscurità …
Se voi non ascolterete,
io piangerò in segreto
dinanzi alla vostra superbia;
il mio occhio si scioglierà in lacrime,
perché sarà deportato il gregge del Signore». (Ger 13,15.16a.17).
Il profeta ammette a nome del popolo che il castigo è stato giusto (cfr. Ger 10,23-25), però fa presente al Signore che l’uomo è fragile. La punizione di conseguenza deve essere moderata così che il popolo non venga annientato. Nella sua intercessione Geremia si espone in prima persona e così si identifica con il suo popolo, sostituendosi a esso come un «capro espiatorio». Egli è stato costretto a proclamare la rovina, pur non riscuotendo che ingiurie dai suoi ascoltatori, ma ora, al momento del disastro, egli parla come un uomo che condivide l’angoscia dei suoi concittadini e sente profondamente la tristezza e l’afflizione per lo scempio della sua patria.
Benevolenza e misericordia divine
Eppure il castigo e la rovina del popolo d’Israele non sono l’ultima parola di Dio, perché egli è per natura un Dio «compassionevole e misericordioso».
I testi più numerosi concernenti la misericordia di Dio in Geremia si trovano soprattutto nella parte centrale del libro (capitoli 30 – 33). L’esilio di babilonia non è stato solo l’esecuzione del castigo, ma soprattutto l’attuazione di un provvidenziale piano ispirato alla benevolenza di Dio. Infatti l’esilio è stato come un crogiuolo, nel quale il popolo è stato purificato dalla sua colpa fondamentale, l’idolatria, e ricondotto dal Signore a un ripensamento sincero e permanente: il Signore si prende cura del suo popolo e lo farà ritornare nella sua terra (Ger 30,3.8-9.16). Dopo il ritorno, Dio ristabilirà Israele sia nella sua componente civile (popolo numeroso) che religiosa (assemblea davanti al Signore). L’antico patto stipulato nel deserto tra tutte le tribù di Israele e il loro Dio sarà rinnovato come effetto della benevolenza divina.
«Così dice il Signore: “Eccomi: farò cessare
l’esilio delle tende di Giacobbe
e delle sue dimore avrò compassione;
sarà anche ricostruita la città sulle sue rovine
e il palazzo nel suo diritto sarà stabilito”» (Ger 30,18).
«Voi sarete per me qual popolo
e io sarò per voi qual Dio» (Ger 30,22).
Motivo della liberazione dall’esilio babilonese è l’amore del Signore, che sin dall’antichità non è mai venuto meno e non si è spento, nemmeno quando il popolo fu strappato al suo paese espiando un giusto castigo. Dopo l’esilio tutto rinasce con il rinnovo dell’antico legame tra Dio e il popolo stipulato nel deserto.
«In quel tempo – oracolo del Signore – sarò qual Dio per tutte le famiglie di Israele, ed essi saranno per me qual popolo. Così dice il Signore: “Trovò grazia nel deserto la massa degli scampati dalla spada. Israele se ne va verso il suo riposo”. Da lontano il Signore è apparso a me: “D’amore perpetuo ti ho amata, perciò ti ho condotta con amore”» (31,1-3).
Le viscere di Dio
Un’immagine di sublime lirismo descrive la reazione di Dio al ritorno dei figli (suo popolo) dall’esilio:
«È, dunque, un figlio prezioso per me Efraim o un bimbo delizioso,
che ogni volta che parlo contro di lui
lo ricordo sempre teneramente?
Per questo si commuovono le mie viscere per lui, ho di lui grande compassione!
– oracolo del Signore -» (31,20).
Il primogenito Efraim è chiamato figlio prezioso e prediletto, del quale il Signore non può parlare senza commuoversi profondamente, quasi soggiogato dalla tenerezza. Gli oracoli di minaccia e di castigo furono proferiti con rincrescimento e col cuore amareggiato. Le viscere stesse di Dio risentono un’immensa compassione per il popolo. Le dure espressioni di condanna sono oramai alle spalle. Nel cuore di Dio vi è una misteriosa emozione, simile a quella della madre per il figlio che ha in grembo. Il riconoscimento dei propri peccati e il desiderio del ritorno da parte del popolo risolvono il profondo contrasto tra la giustizia e l’amore di Dio.
Nell’immagine delle viscere materne, Dio si meraviglia dell’efficacia del suo stesso amore, che si eccita ogniqualvolta si parli del popolo. Il Signore si lascia vincere dalla compassione, così da non potere fare a meno di avere pietà del proprio «figlio prodigo» e accoglierlo tra le sue braccia. Ritroveremo questo atteggiamento in una delle parabole più belle raccontate da Gesù: quella del «figlio prodigo» o detta anche «del padre misericordioso».
Grazzie por questa reflexione