Il Salmo 122 è chiamato dalla tradizione ebreo-cristiana il «cantico di Sion». Il poeta pellegrino, giunto davanti a Gerusalemme (Sion), esplode in un canto di lode esprimente tutta la sua entusiastica meraviglia per la città, ma soprattutto perché in essa vede il punto di convergenza e di raccolta di tutte le tribù d’Israele. Gerusalemme è meravigliosamente bella perché è il luogo più appropriato per il culto, è sede della dinastia davidica, è fonte di giustizia.
1 Canto delle salite. Di Davide.
Quale gioia, quando mi dissero:
»Andremo alla casa del Signore!».
2 Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!
3 Gerusalemme è costruita
come città unita e compatta.
4 È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.
5 Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.
6 Chiedete pace per Gerusalemme:
vivano sicuri quelli che ti amano;
7 sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi.
8 Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su te sia pace!».
9 Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.
Il lettore avverte nel salmo tutta la sorpresa del pellegrino incantato a contemplare le costruzioni, che formano un tutto ben compatto. Le case, i palazzi, le vie e i vicoli con al centro il tempio, sono circondati da mura altissime e solidi torrioni.
La lettura attenta coglie delle significative ripetizioni. La prima è la voce «Gerusalemme» che ricorre tre volte in punti chiave della composizione (vv. 2.3.6); si gioca inoltre sulla sua etimologia popolare Yᵉrûšālāim (città [yerû] della pace [šālām]) nei vv. 6.7. Ed è proprio la parola «pace» (šalôm) quella che risuona poi nei versetti finali (6-8).
Tre brevi strofe articolano il cantico di Sion: nella prima (vv. 1-2), a parte il titoletto del v. 1a, viene espresso il desiderio del pellegrinaggio e l’arrivo in Gerusalemme; nella seconda (vv. 3-5) troviamo un ritratto materiale della città abbellito da un forte afflato spirituale; nella terza (vv. 6-9) l’orante fa voti augurali per Gerusalemme.
Un agognato viaggio
Nei vv. 1-2 il salmista coglie due momenti o stati d’animo: il primo è legato al tempo della programmazione e della decisione del pellegrinaggio, il secondo al momento dell’arrivo a Gerusalemme con la visione panoramica sulla città. Il primo fu fonte di gioia, il secondo è fonte di meraviglia e di emozione, quasi di incredulità per aver raggiunto la meta tanto desiderata e sognata.
Il riferimento alla «gioia» del v. 1b dà il tono e crea la placida atmosfera del salmo. Nello stesso tempo l’espressione «Andremo alla casa del Signore» è con ogni probabilità una formula fissa indicante l’inizio ufficiale del viaggio-pellegrinaggio (cfr. Is 2,3). Il poeta al v. 2 descrive le parti per il tutto, facendo ricorso alla figura retorica della sineddoche. Parla, infatti, dei «nostri piedi» per indicare tutta la persona che si muove lungo la strada del pellegrinaggio; delle porte della città («alle tue porte»), invece di tutto il complesso cittadino fatto di case, vie, cinta muraria.
Meravigliosa visione
Nella seconda strofa il poeta da voce alla sua emozione davanti all’apparizione della città santa (v. 3) e ricorda l’importanza teologica della stessa. Ai suoi occhi la città è «salda e compatta», una roccaforte ben ordinata e compaginata (v. 3). Probabilmente ciò contrasta con la disposizione dei villaggi palestinesi che erano agglomerati di casupole sparse e a prima vista senza un ordine.
Il salmista però va oltre le qualità estetiche della città e coglie l’importanza teologica della città: Gerusalemme è la sede del culto (v. 4) e della storia della salvezza, sede della giustizia (v. 5), e centro della speranza messianica (2 Sam 7,16; Sal 89,5.30.37). Il messia, nuovo Davide promesso, lì si insedierà (Ag 2,21-23; Ger 30,9; Ez 34,32).
La frase del v. 4: «Là salgono insieme le tribù», ricorda i pellegrinaggi che da tutte le tribù, per il passato e il presente, si dirigono verso la città. Questi avvenivano «secondo la legge del Signore» che li prescrive in occasione delle tre grandi feste annuali di pasqua, pentecoste e delle capanne (cfr. Dt 12,5-9; 16,16). Lo scopo era quello di dar lode al «nome del Signore», cioè al Signore, che si identifica, per la mentalità semitica, con il suo nome.
Un pellegrino importante
In queste parole la Chiesa vi scorge una eco dei pellegrinaggi che Gesù stesso ha fatto a Gerusalemme durante la sua vita pubblica. E chissà quante volte ha cantato il Salmo 122 che ritmava l’ascesa dei pellegrini verso la città.
Specialmente il vangelo di Giovanni è attento a darcene notizia. In Gv 2,13 leggiamo che Gesù si è recato a Gerusalemme, prima sua Pasqua pubblica. E qui scaccia i venditori dal tempio che lo profanavano. L’evangelista ricorda che in quell’occasione molti credettero nel suo nome «mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, vedendo i segni che egli compiva». Più avanti nel vangelo, al capitolo quinto, si accenna ad un’altra salita di Gesù a Gerusalemme durante una festa dei Giudei (probabilmente un’altra Pasqua) e in quell’occasione guarisce un paralitico posto ai margini della piscina Betzaetà (5,1-18). Al capitolo settimo Gesù invita i suoi ad andare alla festa delle Capanne, mentre egli, dopo che i suoi fratelli erano saliti «vi andò anche lui, però non apertamente, ma di nascosto» (v. 10). E fu proprio durante la festa di Pasqua che Gesù, recatosi a Gerusalemme per celebrarla con i suoi discepoli, vi trovò la morte. Gesù ha vissuto in pienezza ciò che il salmo 122 cantava.
Chiedete pace per Gerusalemme
Nella terza strofa (vv. 6-9) l’orante fa gli auguri per Gerusalemme. Con un imperativo impersonale «domandate» (šaʾalû), il pellegrino nell’atto di ripartire da Gerusalemme, salutando la città, le augura la pace messianica, pienezza di ogni bene, anche a nome di chi non ha potuto affrontare le fatiche del pellegrinaggio.
Tutta la strofa è poi ritmata dalla parola pace (šalôm vv. 6[due volte).7.8). L’espressione «domandate pace per Gerusalemme» (šaʾalû šᵉlôm Yᵉrûšalam letteralmente «domandate pace di Gerusalemme») indica la pace che scaturisce da Gerusalemme per quanti l’amano (cfr. v. 8) e quella che si augura ad essa e ai suoi abitanti. La pace augurata a Gerusalemme ha il senso globale di ogni bene, non è perciò semplicemente assenza di guerre e di conflitti.
Per la mentalità biblica la pace equivale alla vita in pienezza che ha al suo centro la relazione con Dio. Ecco perché solo il Signore può in realtà concederla.
Con l’espressione «per i miei fratelli e i miei amici» (vv. 8.9), il poeta orante fa sua la voce dei fratelli e degli amici rimasi a casa per moltiplicare il suo augurio e invocare la pace come dona che scende dal cielo. Infine il poeta con una intuizione geniale mette in parallelo la pace con la bontà o il bene (ṭôḇ v. 9), richiamando il primo capitolo della Genesi là dove il testo afferma che Dio, vedendo le sue opere, esclama «e vide che era cosa buona (ṭôḇ)» (Gen 1,3.10.12) e dell’uomo, maschio e femmina, afferma «e vide che era cosa molto buona» (Gen 1,31).
La pace per il nostro orante va strettamente connessa con il bene/bontà: non c’è bene/bontà senza pace e non c’è pace senza bene/bontà. Nel Nuovo Testamento la pace è il primo dono che il Risorto fa ai suoi discepoli: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”» (Gv, 20,19). Ciò significa che vivere da risorti è un vivere la pace, un vivere in pace ricolmi della vita e della bontà del creatore.