È una breve composizione che fungeva probabilmente da preghiera mattutina nelle liturgie orientali. Due sono i sentimenti che si interscambi ano: la fiducia e il lamento. L’andamento poetico è quello tipico delle suppliche, ruotante attorno a tre attori: essi, i nemici di norma «numerosi»; tu, Dio salvatore; io, l’orante, la cui presenza è marcata dalla ripetizione di ben 16 volte del pronome personale (in ebraico –î).
La situazione descritta dal salmista è drammatica. Imperversano gli avversari, chiamati in ebraico con un vocabolo che indica il «rinserrare», l’«opprimere», quasi il lento e inesorabile strangolamento della vittima (vv. 2-3). Il numero dei nemici è altissimo e stride con la solitudine del protagonista che è immerso in una palude di angoscia e sembra persino abbandonato da Dio. I nemici sono tronfi e sprezzanti tanto che urlano: «Nessuna salvezza può avere da Dio!». Noi cristiani la ritroveremo sotto la croce: «Ha confidato in Dio: lo liberi ora se gli vuol bene» (Mt 27,43). Quale sarà la sorte del giusto «disprezzato e reietto dagli uomini» (Is 53,3)?
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