Di Pier Paolo Nava
Il Deuteronomio (Dt), quinto libro del nostro Pentateuco, si pone come conclusione della vicenda dell’esodo di Israele dall’Egitto: al termine del suo itinerario, Israele si trova alle porte della Terra Promessa e qui Mosè tiene il suo ultimo grande discorso al popolo, che è poi il suo testamento spirituale (così almeno è l’intenzione dell’autore anonimo di questi testi). Così, dopo aver riepilogato per sommi capi le tappe dell’itinerario con gli episodi salienti (Dt 1-4), Mosè trae dalla storia passata l’appello a non dimenticare i benefici ricevuti, e anche alcune preziose lezioni di vita, a partire dal Decalogo (Dt 5-11, ricchi di alta spiritualità). Il resto del libro è costituito quasi tutto dal Codice Deuteronomico (Dt 12-28), cui segue un ultimo discorso – omelia di Mosè (Dt 29-30) e altri materiali fino alla notizia della morte del Patriarca, che avviene in modo impressionante al di fuori della Terra (Dt 31-34).
Il Codice Deuteronomico a prima vista appare come un insieme di leggi piuttosto aride e inattuali per noi; a una lettura più paziente però rivelerebbe al lettore una grande massa di testi ricchi di una altissima sensibilità e umanità coniugata con una grande serietà (vedi per es. Dt 12,28; 14,21 alla fine; 14,27-29; 15,1-18; 19,1-6; 19,15-20; 20,5-12; 20,19-20; 22,1-4; 22,6-8; 22,13-21; 23,16-26; 24,5-22; 25,1-4; 25,11-16; 26,1-11).
Tra i testi rilevanti per il nostro oggi c’è sicuramente la “Carta Costituzionale” di Dt 16,18-18,22: qui la Legge di Mosè descrive le quattro figure autorevoli sulle quali si basa la vita religiosa e civile del popolo (quindi esclude ogni gestione arbitraria o personalista di un qualunque potere): i giudici (16,18-17,13), i re (17,14-20), i sacerdoti (18,1-8) e i profeti (18,9-22). Il dato veramente moderno di questi testi è che non solo il legislatore prescrive gli ambiti di azione per ciascuno, ma anche i rispettivi limiti, e il mutuo controllo tra le diverse autorità. Principi, questi, che stanno alla base di qualunque legislazione onesta e democratica, e che nella Bibbia sono fondati sull’atto di Dio che libera il suo popolo, per cui il popolo dei liberati deve guardarsi bene dal ricadere in qualunque forma di sopruso o abuso.
I giudici
Di essi si parla subito all’inizio: l’autore intende dire che questa funzione è la più importante affinché ciascuno nel popolo possa vivere sereno, sicuro di non venir angariato dal prepotente di turno. Il testo è ben chiaro già da solo: il primo obbligo è quello di evitare qualunque imparzialità nutrita dalle mazzette (16,18ss), sottolineato da un triplice “non”; allora si adempirà la promessa: “per poter vivere e possedere (= godere) il paese che il Signore tuo Dio sta per darti”.
Questo argomento è così importante da essere anche riaffermato da tutti i profeti (ad esempio: Isaia 1,16-20.21-28; 5,1-7; Ezechiele 22,23-31; Amos 2,6-15; 5,21-24).
A mo’ di esempio, Dt propone un caso: qualcuno che venga accusato di idolatria, e quindi che rischi la pena capitale. Ebbene, il giudice è tenuto a non giudicare per sentito dire o secondo l’opportunità, ma dopo una indagine preliminare accurata e sulla base di più di un testimone. Inoltre, è previsto una specie di ricorso in appello: al sacerdozio spetta la supervisione e il controllo sui giudici (Dt 17,8-13), hanno la responsabilità di collegare sempre la legge applicata con quella data da Dio. Nell’insieme della Costituzione di Dt, sembra che al sacerdote spetti l’autorità superiore: in realtà la massima autorità è la Legge (= la Parola di Dio) che il sacerdote ha la responsabilità di far applicare.
I re
Avendo tra l’altro il potere militare, i re più di tutti gli altri correvano il rischio di agire in modo del tutto arbitrario; e così era l’usanza presso tutti i popoli antichi confinanti con Israele: i fenici (attuale Libano), Assiri e Babilonesi (nell’attuale Iraq) e Egiziani; basti pensare che in Egitto il faraone riuscì a farsi adorare come un dio vivente in terra. Dt quindi abbonda sulle limitazioni: il re anzitutto non è una istituzione obbligatoria (17,14), poi deve essere un israelita e non il segno di un potere straniero (17,15); non deve condurre una politica militarista e imperialista (17,16); non deve vivere nel lusso delle cose e delle donne (questo particolare negativo ha colpito la vita del per altri versi grande re di Israele Salomone: vedi 1Re 11,1-13); poi deve fare quotidianamente la lettura spirituale sul testo della Legge, sul libro fornito ancora dai sacerdoti (la legge rimane l’autorità suprema); infine deve sentirsi in tutto uno come tutti (17,20), uno che deve obbedire a una Giustizia superiore.
I sacerdoti
Anche questo è un potere che, nella visione ebraica antica, rischiava di eccedere. Oltre al dovere fondamentale di far applicare la Legge e non la propria volontà, il sacerdote è tenuto a una forma di povertà: a differenza delle altre tribù, a Levi non viene assegnato un territorio, quindi una sicurezza economica “automatica” (18,2); il sostentamento proviene dalle offerte dei fedeli, i quali quindi, di fatto, controllano il sacerdozio (un po’ come la legge italiana dell’ 8 per 1000).
Un altro dovere invece riguarda la vita interna tra i sacerdoti: visto che il Dt prescrive che di tutti i santuari di Israele rimanga solo il tempio di Gerusalemme (vedi Dt 12), si ordina che i sacerdoti di Gerusalemme accolgano di buon grado e diano il sostentamento ai loro confratelli che prima “lavoravano in altre parrocchie” e che ora si trovano disoccupati (18,6-8); anche questa è una misura di giustizia, oltre che una buona testimonianza.
I profeti
Si tratta di una autorità che noi accetteremmo difficilmente, oggi; i profeti sono quelli che parlano autorevolmente perché dicono la Parola di Dio; in un certo senso hanno una mansione di insegnamento simile a quella dei sacerdoti, ma a differenza di quelli non sono inquadrati in una istituzione. In qualità di liberi battitori, su di loro piove naturalmente il sospetto della Legge, preoccupata qui di stabilire i criteri per distinguere il profeta vero da quello falso, chi dice le Parole di Dio e chi invece gli mette in bocca le proprie. Il rischio era tutt’altro che remoto, visto che anche i profeti della Bibbia polemizzarono contro i falsi colleghi (Isaia 28,7ss; Geremia 23,9ss; Ezechiele 13; e l’episodio gustoso di 1Re 22,1-28).
Quindi, non chiunque dice “lo Spirito Santo mi ha detto che…” va ascoltato; anzitutto, falsi profeti sono gli astrologi e i maghi (18,10-14), che vengono ascoltati invece dai pagani; inoltre, è vero profeta colui la cui parola si compie nei fatti: non solo chi predice fatti che accadono davvero, ma anche (diremmo noi oggi) chi per primo vive quello che insegna agli altri.
Altrove la Bibbia offre altri due criteri: il vero profeta è colui che non insegna mode o novità del momento, ma si pone in linea con la fede di Israele (Dt 13,3). Inoltre il profeta vero è un “rompiscatole”, uno che ha il coraggio di criticare, che si pone di fronte ai potenti con la massima libertà e con la minima paura delle conseguenze (vedi il già citato 1Re 22, ma anche il caso di Natan nei confronti del re Davide: 2Sam 12,1-14 con gli antefatti del cap. 11).
Conclusione
I testi che abbiamo proposto contengono una testimonianza di alta civiltà, di equilibrio tra i poteri e tra diritti e doveri di chi deve gestire il popolo. Credo che il discorso fatto abbia una certa rilevanza per alcuni aspetti dell’oggi, anche perché le nostre istituzioni civili si devono riguadagnare almeno parte del prestigio perduto agli occhi della gente e della legge.
Tuttavia il discorso biblico non è mai semplice sociologia: Dt non ragiona in termini laicisti, ma religiosi, perché la Legge di Dio non ha peso così di per se stessa, ma perché il Dio che comanda al suo popolo è lo stesso Dio che prima lo ha liberato e gli ha dato vita.
Obbedire alla Legge di Dio significa continuare a vivere, non sprecare il dono ricevuto con una condotta disordinata. La libertà acquistata nell’Esodo (e per noi cristiani, la libertà vissuta da Cristo e donata a noi nel battesimo) viene attualizzata in tutti gli istanti in cui un credente (come Maria) ascolta la Parola di Dio per metterla in pratica. Non in ottica laicista (poco importa), ma in ottica religiosa libertà e obbedienza si sostengono a vicenda.